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Doing Time For Patsy Cline
Anno: 1997
Regista: Chris Kennedy;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Australia;
Data inserimento nel database: 06-09-1998


Patsy Kline di Chris Kennedy
Doing Time For Patsy Cline

Regia:Chris Kennedy
Sceneggiatura: Chris Kennedy
Fotografia: Andrew Lesnie
Musica originale: Peter Best
Montaggio: Ken Sallows
Interpreti: Richard Roxburgh, Miranda Otto,
Matt Day, Tony Barry, Annie Byron
Direttore Artistico: Wolfgang Burmann
Produttore esecutivo: Chris Kennedy, John Winter
Produzione: Oilrag Prods
Formato: 35 mm.
Durata: 95 min.
Provenienza: Australia
Anno: 1997


Introdotto da scritte al neon nelle quali è inquietante la ricorrenza di Nashville e Cowboy, il film è scontato al punto che, se vi riveliamo il materiale affastellato nella sequenza iniziale, che annovera in uno struggente concentrato: un portico inondato di luce, una stanzetta a dominante gialla (sempre la stessa dai film di James Dean in poi), un furgoncino scassato adibito ad angolino appartato per uno scarsamente ironico dialogo tra padre e figlio sulle donne, potete ricostruirvi da soli l'inquadratura che riunisce questo campionario di luoghi comuni in uno specchietto da muro sbrecciato e comprensivo anche di sguardo apprensivo della rude madre del protagonista, dotato come da copione di valigia e astuccio di chitarra. Tutto ciò illustra nei primi minuti uno dei tre ambienti frequentati dal film lungo tutto l'intreccio, ma quel che è peggio rappresenta anche l'immaginario globale del regista. In fondo che cosa ci si può aspettare da un autore che si chiama Kennedy (benché australiano, a confermare il livello basso di quella lontana cinematografia, privilegiata senza motivo dalla nostra distribuzione rispetto a paesi africani o alla vitale produzione sudamericana)?

Fin dal debutto si vorrebbe costruire un viaggio iniziatico e questo sembra sortire effetti nella decisione finale del ragazzo, il problema è che i - fortunatamente - pochi spettatori in sala non hanno assistito ad alcuna crescita graduale del personaggio, che potesse legittimare la svolta. L'inopinata decisione di salvare il rivale-amico-compagno di viaggio e di cella arriva a dare un taglio ai sogni di gloria infarciti di orribile lagna country, per di più eseguita in modo approssimativo, ma senza altra spiegazione che alleviare la sofferenza del pubblico, mentre sul piano del reale si rivelano palesi incongruenze per il fatto che non si spiega da dove il giovane abbia tratto il suo immaginario hollywoodiano e le sue nozioni da rotocalco sui protagonisti vissuti nel Tennessee a migliaia di miglia dal suo eremo al fondo del deserto australiano, privo persino di apparecchio televisivo (roba che neanche più a Sant'Elena...).

L'unica figura che risveglia un qualche interesse nel sonnacchioso repertorio di balletti e banalità è il compagno di viaggio, amante della pleonastica Patsy (ma si sa: il duro mondo confederato non è fatto per le donne): un po' troppo esagitato il co-protagonista è sbruffone senza motivo, ma almeno non sopporta l'irritante ripetitività della musica tradizionale americana. Egli è l'unico consapevole dell'immondo spettacolo offerto e chiede più volte rivolto a tutti, ma riferendosi a testi e musiche lagnose di sorprenderlo, ottenendo la solidarietà della platea. Purtroppo la sua richiesta rimane inascoltata: "Preferisco cose meno prevedibili del country", ma il citato Miles Davis non riesce ad abitare neanche una porzione di questa pellicola di camioncini polverosi, gonne in pelle e camicie a stelle e strisce. I nomi delle razze merinos testimoniano la complicità con il padre (e preludono al futuro da allevatore dell'aspirante cantante), come se si potesse dubitare dell'attaccamento alla tradizione dopo una messinscena che occupa tre ambienti ricolmi di note country, montati alternativamente allo scopo di occupare passato, presente e sogni improntati alla stessa squallida filosofia: "Le donne con i fianchi stretti non hanno salute": infatti Patsy ha il cancro, tanto per non dimenticare nessuno sterotipo.

Se non fosse così serio, verrebbe da pensare ad una parodia, ma i rednecks sono troppo ignoranti per capire o sfoggiare l'ironia e quindi la retorica regna sovrana: infatti il più abborracciato, se è possibile una graduatoria tra i tre filoni che il film cerca di unire senza riuscirvi, è lo spezzone che si dipana presso i genitori, colti sempre in situazioni che si vorrebbero filologiche e significative, risultando invece imbarazzanti per ingenuità, raggiungendo abissi di banale insipienza nella mancata rivelazione televisiva.

Il racconto si ricompone in un epilogo consolatorio e prevedibile, dove la prigione per tre mesi sostituisce il viaggio di formazione, confondendosi con il mito di Johnny Cash e con il rispetto dei tre balordi rednecks, senza dimenticare la conferma dell'arrivo dei due amici che inviano la fotografia di Disneyland, ottenuta dall'unico secondino comprensivo visto in anni di cinema: bravo, ragazzo!

L'unico personaggio sopportabile pronuncia una battuta che vorremmo fare nostra: "Rispetto alla vostra musica preferivo quando mi facevate sputare sangue a calci"; vale per il film e per l'intero repertorio di orribili strimpellate country.