NearDark - Database di recensioni

NearDark - Database di recensioni

Africa

Godard Tracker


Tutte le
Rubriche

Chi siamo


NearDark
database di recensioni
Parole chiave:

Per ricercare nel database di NearDark, scrivete nel campo qui sopra una stringa di un titolo, di un autore, un paese di provenienza (in italiano; Gran Bretagna = UK, Stati Uniti = USA), un anno di produzione e premete il pulsante di invio.
È possibile accedere direttamente agli articoli più recenti, alle recensioni ipertestuali e alle schede sugli autori, per il momento escluse dal database. Per gli utenti Macintosh, è possibile anche scaricare un plug-in per Sherlock.
Visitate anche la sezione dedicata all'Africa!


Il cielo cade
Anno: 2000
Regista: Antonio Frazzi; Andrea Frazzi;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 29-05-2000


Il Cielo Cade

IL CIELO CADE

 

Regia sceneggiatura: Andrea e Antonio Frazzi – Sceneggiatura: Suso Cecchi D'Amico dal romanzo omonimo di Lorenza Mazzetti (Premio Viareggio 1967) – Fotografia: Franco Di Giacomo – Montaggio: Amedeo Salfa – Scenografia: Mario Garbuglia – Musica: Luis Bacalov – Costumi: Carlo Diappi Suono: Riccardo Palmieri – Interpreti: Veronica Niccolai (Penny), Lara Campoli (Baby), Isabella Rossellini (Katchen), Jeroen Krabbé (Wilhelm), Barbara Enrichi (Rosa), Paul Brooke (Mr.Pit), Elena Sofonova (Maya), Gianna Giachetti (Elsa), Luciano Virgilio (Arthur), Bettina Giovannini (Signora Pinzauti), Bruno Vetti (il parroco), Mauro Marino (Cosimo) – Italia, 2000, 101’. (Parus Film, Viva cinematografica, Istituto Luce)

 

I gemelli Andrea e Antonio Frazzi, dopo 25 anni di lavoro televisivo, debuttano sul grande schermo per raccontare una micro-storia tratta dal romanzo autobiografico di Lorenza Mazzetti (Premio Viareggio 1967), dedicata ad un doloroso episodio della sua infanzia, di cui sono protagonisti la famiglia Einstein e due bambine rimaste orfane (la più grande è l'alter ego della scrittrice stessa). In particolare emerge la figura dello zio Wilhelm, dietro cui si nasconde Alfred Einstein, cugino del più famoso Albert, morto suicida dopo l'uccisione della moglie e delle figlie per mano dei nazisti, pochi giorni prima della liberazione di Firenze da parte delle truppe inglesi.
Estate 1944 in una bella villa toscana a pochi chilometri da Firenze. Penny e sua sorella Baby, rimaste orfane di madre (morta per malattia) e di padre (vittima di un incidente automobilistico), vengono ospitate presso gli zii, che abitano in campagna. La zia è la sorella della madre ed è sposata con un intellettuale ebreo (Wilhelm), di nazionalità tedesca, amante della musica, idealista e paladino della giustizia. Educate secondo i rituali fascisti, le due bambine si trovano invece a sperimentare nuovi metodi educativi, irriverenti nei confronti delle autorità religiose e fasciste, improntati sul rispetto della dignità umana e sull'amore per la cultura libertaria.

Alcune recensioni hanno esaltato entusiasticamente doti indubitabili degli autori quali: "consumata abilità nel raccontare, senso del ritmo e della misura nel dosare momenti brillanti e drammatici", insomma il solido mestiere dei due gemelli, che tuttavia può diventare limite e usura del genere, se sommato ai trucchetti che da almeno mezzo secolo ci ammannisce Suso Cecchi D'Amico. Un episodio per tutti: l'anello del vescovo, che lo zione sarebbe tenuto a baciare per salvarsi l'anima; un laico, presumibilmente di sinistra e... ebreo che ovviamente nell'occasione della visita si dovrebbe convertire, come in tutti i sogni dei ferventi cattolici ammalati di proselitismo. In quel frangente il gioco della sceneggiatura, a cui tiene bordone la regia attraverso riprese ruffiane montate in modo da alternare l'eccitazione misticheggiante delle ragazzine al civile confronto di opinioni degli adulti (scontata la bonarietà del vescovo, quanto la sollecitudine del parroco nell’avvertimento, quando gli eventi precipiteranno), privilegia il livello della superstizione, che sovrasta quello razionale espresso dalla posizione del parente di Einstein (che preferisce consentire una scelta religiosa consapevole alle ragazze da decidere una volta adulte), perché considera il pubblico alla stregua di quello televisivo, infantile e dunque preda di valutazioni pelosamente emotive. Non è tanto l'intento sbandierato dagli autori di voler filtrare lo sguardo attraverso gli occhi della bambina, a sua volta frutto dei ricordi di se stessa scrittrice, poi setacciati dal neorelismo fatto sceneggiatura, e quindi edulcorati dagli autori televisivi per eccellenza: in questo caso si tratta di considerare ancora e sempre gli spettatori come bambini incapaci di cogliere null'altro che le percezioni più palesi, le emozioni più marchiane, gli episodi che solleticano maggiormente la presunta memoria popolaresca; dunque ben venga un pre-testo che prende spunto dalle percezioni di una bambina, così si legittima la costrizione della percezione ad un mondo infantile. Se si ritiene con questi mezzucci arcaici di attrarre platee giovani per combattere i fascismi in recupero nell'immaginario dilagante, si ottiene l'effetto opposto: riferimenti stantii, situazioni ridotte a macchiette di stereotipi poco credibili, nonostante - e proprio per l'evidente ricerca di duplicazione - Isabella Rossellini ricerchi l’effetto clone dell'icona neorealista che rappresentò sua madre e la cameriera svolga lo stesso ruolo di centinaia di altre Barbara Enrichi del cinema italiano, il quale tenta di darsi un'aria di impegno e si riduce invece a ritratto poco credibile di alta borghesia intenta a ridere dei temi di Penny.

Questi ultimi non sono un aspetto secondario: l'impianto del film viene confermato nel suo spudorato didascalismo proprio dalla fastidiosa citazione di queste prove di ingenua scrittura (il cui risultato finale non dimentichiamo che è il romanzo responsabile della riduzione cinematografica, visto che il premio Viareggio '67 di Lorenza Mazzetti probabilmente altro non è che l'ampliamento di quelle tracce scolastiche), che nell'intento degli autori - Suso Cecchi D'Amico in primis - dovevano scatenare l'ilarità grazie alle fantasie mistiche nutrite di propaganda fascista. In realtà negli ultimi cinquant'anni si è talmente raschiato il barile con le medesime situazioni che anche intuizioni felici come la Madonna pelata, sincresi mistica del priapeo duce mascellone con l'immagine della vergine in una confusione di sacro e profano e riconosciuta come l'idea più originale del film al punto da suggerire il titolo del film, sembra una rimasticatura di successivi palinsesti che nulla aggiungono al tedio di assistere al solito casolare toscano regolato da un gineceo, in cui una piccola scrivana fiorentina si ritrova a ripetere per castigo frasi che censurano il suo comportamento al punto da costringere l'inclito pubblico ad assistere ad una insostenibile messinscena pleonastica di tentato suicidio infantile.

Apprezzabile la scelta di non doppiare le parti in lingua tedesca (che sono semplice conversazione salottiera per lo più), che si intrecciano alla battuta in francese ("Il pleur dans mon coeur comme il pleuve dans la ville"), stigmatizzando le velleità internazionaliste di una condizione di provincialismo.
Il linguaggio adottato fin dall'inizio avverte che le metafore saranno grevi e le proposte di lettura degne di un sussidiario degli anni '60: già i titoli spartiscono la scena con una ripresa circolare dal basso su alberi di un parco, cortocircuito della memoria interrotto dall'auto che conduce la protagonista presso la magione degli zii, elencando come una litania tutti gli indizi utili (l'auto d'epoca, la donna che ne fuoriesce, il codazzo di ragazzine, i corridoi del palazzo, autisti e domestici, fermento: una sequenza di pochi secondi che tradotta dai canoni televisivi sostituisce una didascalia in cui sta scritto: "Primi Anni 40, campagna toscana, famiglia benestante, probabile ferale notizia in arrivo"): una prima tragedia si è consumata e ci viene raccontata con concitazione nelle poche inquadrature che con maestria introducono i personaggi uno per uno, attenti a non sovrapporli, ma anche a non consentire un'analisi più approfondita per nessuno di loro, rimandata a momenti migliori che dovranno venire e invece si ridurranno a una passerella per ogni attore, dimenticandosi di far uscire dalla macchietta tutti gli sventurati che appaiono nel film, compresi gli zii di Penny, ai quali sono consentiti giochi di sguardi, complicità, momenti di nevrastenia (inopinata e sopra le righe, ma la figlia di Rossellini è da Il Prato che ci affligge con la presenza del suo rotacismo sugli schermi, qui spiegato dall’origine straniera del personaggio). Sono però banditi tutti i possibili sviluppi dei personaggi, i gesti autonomi, i guizzi che avrebbero potuto rinnovare o addirittura mettere in forse i canoni del racconto relativo agli ultimi anni del fascismo, consentirne una lettura meno retorica dove certi militari tedeschi non siano per forza gentiluomini, per salvare l’onore della Wermacht lasciando unicamente alle belve naziste delle SS il monopolio della spietatezza, o il partigiano non esca da un agiografia di San Giuseppe con il fazzoletto rosso al collo esplicitata dalla confusione ingenerata dalle menti infantili imbevute di cattolicesimo. E allora anche i tagli scelti non possono che adeguarsi ad un corollario decretato da manuali mai scritti a cui si assoggettarono generazioni di autori, compresa la plongée sul tavolo della prima sera alla villa, dove assistiamo al primo impegno significativo: "Da oggi a tavola parleremo soltanto in una lingua comprensibile a tutti", accettazione di una rivendicazione della bambina, recepita - prima che dallo zio - dalla sceneggiatrice che si diverte a costellare di imbarazzanti luoghi comuni il plot e che impone agli spettatori un transfert legato proprio alla lingua: essi stessi sono posti di fronte a dialoghi in lingua straniera. I bambini in fondo "ci guardano" e insegnano agli adulti spaesati di tutto il cinema neorealista.

Infatti alla sequenza sul desco fan seguito: la maestra e il ridicolo "eia eia alalà!" sulle scale della scuola, non abbastanza stigmatizzato nella sua assurda onomatopea di un'ideologia stracciona e sempre riproposto soltanto come episodio folkloristico; la pletora di calamai e pennini, dettagli impregnati di autoindulgenza nella propria pretesa di essere ancora significativi; il ragazzino più scanzonato (può chiamarsi in modo diverso da Pierino?) che riesce solo a fare costume, come il pianista, che infila due o tre lezioncine da reader's digest su Mozart e Chopin (quest'ultimo contestualizzato per il suo afflato nostalgico di una libertà chimerica, opportunamente ma troppo spudoratamente) e se ne va teatralmente. Non è chiaro invece quale motivazione stilistica imponga a tutte le sequenze significative di iniziare da una visione dal basso con un leggero grandangolo: forse per suggerire il punto di vista di una bambina, o forse per una forma di sudditanza verso gli eventi che travolsero i destini di molte persone, coinvolte dalla guerra e perseguitate dal fascismo; certamente risulta poco realistica l'opzione "rasoterra", soprattutto se viene poi contrappuntata da riprese dall'alto che offrono allo spettatore un punto di vista d'insieme, che risulta falso, perché la condizione di sguardo di bambina sperduta non consente mai di avere davvero un quadro unitario di ciò che avveniva. In quei casi si tratta di immagini che riportano lo spettatore alla sua condizione e alle sue pre-conoscenze che esulano dal contesto del film, finiscono solamente per creare un diaframma tra pubblico e materia trattata.

Degna di menzione è l'inquadratura di Penny catturata dalla cuoca popolana (burbera, uguale allo stesso personaggio nello sceneggiato sul priore di Barbiana) il cui viso è illuminato in modo innaturale mentre in grandangolo è sottoposta alla tortura della pulizia dall'inchiostro, efficace perché è uno dei pochi momenti dove si abbandona il naturalismo realistico per tentare di interpretare lo stato d'animo della ragazzina intrappolata che scalcia e si divincola, soffocata dall'educazione; repressiva comunque: quella littoria e quella di zio Wilhelm, laica ma non meno severa. Si tratta di uno degli sporadici tentativi di rappresentazione indiretta della condizione emotiva, che straborda anche nella descrizione del momento storico, per il resto ripreso in modo neutro, comprensivo delle immancabili note lugubri di Radio Londra, degne della copertina della Domenica del Corriere. Serie di siparietti tratti da repertori di trovarobato di cui non è risparmiato nulla, nemmeno una caduta nel cesso di Baby, la sorellina, che bisognerebbe porre a confronto con i ritmi e i tempi dell'episodio analogo di Gatto nero, gatto bianco per pesare il greve tono televisivo rispetto alla scanzonata dirompenza della comica preparata da Kusturica. Se qualunque trasgressione viene perseguita, va anche detto che l'incapacità di immaginarne di plausibili e ribalde connota l'intero set in cui è immersa la vicenda come un'arcadia dove da decenni attorno al medesimo torrente si svolgono gli stessi misfatti, le identiche prime esperienze: probabilmente perché gli ideatori delle storie sovvenzionate dai produttori sono da cinquant'anni quelli che non possono aver vissuto episodi diversi da quelli che hanno già raccontato svariate volte.
Nel brodo diluito risulta pregevole un piano sequenza: si tratta della soggettiva di Penny nel momento in cui la radio annuncia l'arresto di "Sua Eccellenza Benito Mussolini", repertorio eiar ascoltato ormai una pletora di volte. In quell'ispirato movimento di macchina a mano, concitato e privo di uscite, gli autori riescono a fondere per l'unica volta in tutto il film la Storia con la vicenda personale della piccola orfana: come tutti gli italiani si trovarono confusi dalla notizia, indecisi sul da farsi, privati di un despota che aveva accentrato su di sé tutte le prerogative di comando e non aveva permesso una coscienza individuale, così la ragazzina – che si era presentata nella casa dello zio tutta fiera e tronfia nella sua divisa di giovane italiana – cerca la figura rassicurante dello zio e lo fa zigzagando per l'aia stracolma di persone altrettanto confuse: in fondo l'aveva anche scritto in un componimento: "Io amo Mussolini come lo zio, l'Italia come la zia", un'Italietta fatta di modelli da seguire e cercare nei momenti di confusione. Anche in questo caso come nell'episodio dell'anello, il piano delle emozioni superstiziose e delle credenze popolari, subissa e surclassa l'analisi storica, ma stavolta almeno si ferma alla similitudine suggerita, laddove per tutto il resto del film invece s'insiste a voler imporre la visione dal basso come unica possibile, relegando a quinta scenica le macchiette delle Storia, rifiutando di legittimare con riferimenti più globali i motivi per cui avrebbero dovuto interessarci i guai di Penny.
Tra le battute felici è giusto ritagliare uno spazio a quella pronunciata da Baby che le fa assimilare il soldato inglese (con il solito tatto definisce la situazione: "It's only a farmer funeral") al Sancho Panza del Don Quijote che stava leggendo, nuovo segnale di una crescita dell'approccio con la Storia: non più ritrarsi nell'alveo della superstizione e nemmeno assimilazione dei due piani in una commistione indistinguibile dove il caos individuale rispecchia quello generale, ma elaborazione del racconto e attraverso quella operazione sviluppo di una lettura della storia, quella propria e quella generale.
Purtroppo si tratta di poche luci in mezzo a battute telefonate ("Non gli ha mai fatto vincere una partita" lo pensa lo spettatore meno scafato alcuni secondi prima che venga pronunciata la sottolineatura di una situazione già abbastanza circostanziata da inquadrature che indugiano sui volti dei due leali avversari agli scacchi) e gesti di liberazione plateali come il taglio dei cavi che testimoniavano dell'occupazione tedesca della casa. L'abisso in questo senso si tocca con la corsa del gruppo di sei volti di donna compressi in un piano ravvicinato gioioso sulla speranza dell'arrivo degli inglesi che si smorza sul portone aperto: ovviamente noi leggiamo sui loro volti la delusione e l'arrivo delle SS in una scena che avrebbe potuto essere accettabile soltanto se fosse stata citazione esplicita di una delle innumerevoli sequenze copiate, fatta in questo modo è invece semplice plagio da testi precedenti.