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La fe del volcan
Anno: 2001
Regista: Ana Poliak;
Autore Recensione: maqroll
Provenienza: Argentina;
Data inserimento nel database: 22-11-2001


La fe del volcan - Ana Poliak

La fe del volcan

di Ana Poliak

fotografia: Willi Behnisch

suono: Luis Corazza

Argentina, 2001, durata 85'


Un vulcano un po´ in sonno, che dalla sua pigra catatonia lascia sfuggire talvolta dei lapilli di sorda rabbia. Il passato che non vuol passare, ovvero: "I desaparecidos non esistono ma ci sono". Bocca che non smette di borbottare, Danilo, perché il vulcano è qualcosa che era scoppiato dentro e che rimaneva latente. Quello è il primo dei due dilemmi attorno ai quali gravita il film senza riuscire a decretare altro, se non che nel passato ci sono atrocità che non si possono risolvere e che l´omertà istituzionalizzata (‘obediencia debida y punto final’) non ha fatto che incancrenire: 1) "Saltare fuori o dentro di me?" Si chiede all´inizio una voce fuori campo accreditabile come l´autrice o anche come alter ego dello spettatore chiamato a una via crucis faticosa, ma capace di fotografare una società allo sbando, un comunità che condivide isole di passato laceranti, dalle quali non può venire altro che cinismo e – paradossalmente – indifferenza, perché non si sa come difendersi da una violenza che ha marchiato una generazione, quella non massacrata perché troppo giovane, ma colpita comunque, quando a 14 anni scriveva alla propria insegnante senza sapere che in quel momento stavano torturandola e questo appare come una notazione autobiografica della regista nata nel 1962 (dunque quattordicenne nel 1976), lanciando un altro ponte tra quella figura che si aggira per un appartamento vuoto e fatiscente all´inizio, che è la regista stessa.

E allora appare naturale che si cerchino radici (forse individuabili in quell´unica immagine significativa del film che inquadra gli scontri davanti all´università probabilmente riconducibili all´improvviso spalancarsi del precipizio, 25 anni fa): il film s´inizia dunque con un personaggio fantomatico, che vediamo in un lungo controluce fisso, e la costruzione per lo più in soggettiva rigorosa fa coincidere lo sguardo dello spettatore con quello dell´autrice, che tenta di penetrare nell´alloggio in cui nacque. Da quelle finestre appannate, come le nostre percezioni, prende avvio il tuffo in una realtà un po´ deformata nei ritmi, allungati a dismisura dalla difficoltà di uscire dall´incanto (in questo rimanda all´atmosfera di La cienaga), e dilatata negli spazi – percorsi in tempo reale in lunghe e defatiganti carrellate verso il nulla (quel nulla in cui incappa la protagonista di come El viento se llevo lo que, sono molte le protagoniste di una cinematografia in evoluzione sfrenata, tra le più interessanti del periodo e che avrà una passerella a Torino a partire dalla fine del Festival, una sorta di coda della kermesse) –, questo non può che condurre alla seconda domanda, più impegnativa e generica: 2) "Cos´è la realtà?". Angoscioso dilemma, reso esplosivo dal dubbio che s´insinua: "Per qualcosa sarà successo…", sennò la mente non può accettare quegli eventi. Perciò Danilo inventa tanti padri diversi: un pizzaiolo che a furia di mangiare pizze non passava attraverso le porte; pilota di formula1, … torturatore; quale sarà il più plausibile? E poi c´è la realtà pubblicitaria, scanzonate allusioni ai fallimenti argentini (Aerolineas, su tutti, nei poster tridimensionali con una carlinga che punta verso terra; ma anche uno scarafaggio animato che muore); e l´autentico problema del rapporto intergenerazionale: cioè se si può credere o no ai racconti.

La mdp arranca lentamente dietro ai due viandanti – la ragazzina e l´arrotino – in lunghe carrellate rigorose per le vie di una capitale ancor più nostalgicamente proiettata verso fasti antichi già ammantati di dolore per una fantomatica lontananza ("Gardel, dove sei?", urla il fisico fulminato da quando fu bastonato durante una manifestazione, altro personaggio emblematico incontrato al porto), come quelle del Wenders della trilogia: il rapporto tra l´uomo disincantato e tormentato dall´orrore del passato e la giovane apprendista somiglia al pellegrinaggio verso una meta indefinita come Alice in den Städten; l´occhio è così libero di vagare intorno al fotogramma quasi per aiutare i due nella loro ricerca di un senso, di una meta da raggiungere, che manca nel futuro, alla fine della strada polverosa che percorriamo con la stessa fatica disperata della ragazza, una distanza che l´arrotino elabora in enigmatiche frasi spezzettate ("Non so dove vado, ma ci vado; non posso fermarmi. Vado laggiù, non so dove, ma laggiù"). Il suo flusso di coscienza si contrappone al silenzio della giovane, enunciando la propria indisposizione al futuro, non solo perché ripiegato sul passato, ma perché il futuro è ancora più fumoso ("Non voglio nulla che cresca, animaletti o piante. Non possiedo il formato del XXI secolo" è la battuta più illuminante in questo senso) e non potrebbe contenere le narrazioni: "Cosa potrei raccontare a un figlio? A me raccontavano storie bellissime". E il fisico invece fa un´imitazione di Hitler, in alternativa alla storia raccontata a scuola, ove non si impara nulla.

La sensazione di asfissiare, in una città dove manca l´aria, in cui pedalando si ha la sensazione di fendere e lasciarsi dietro una scia di fetore come quella dei locomotori. È solo una delle molte immagini che si sceglie di affabulare, ricostruire a parole, senza immagini (desaparecidas anche quelle), privilegiando la strada priva di connotazioni precipue (con costruzioni fatiscenti che ricordano nei controluce il finale di La nube di Solanas, per il quale Poliak ha fatto l'aiuto) e rinviando a parole a quella staticità innaturale, una sospensione ‘fotografata’ dalle katane giapponesi che "tagliano senza che nulla cada. Tutto rimane al suo posto". Solo che il mondo privato di senso, è stato svuotato dalla tagliente spada.