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Le Mur
Anno: 1998
Regista: Alain Berliner;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Belgio;
Data inserimento nel database: 04-01-2000


Cinema francese

Le Mur


Regia e sceneggiatura: Alain Berliner
Fotografia: Yves Cape
Montaggio: Sandrine Deegen
Musica: Alain Debaisieux
Suono: Olivier Hespel
Scenografia: Pierre-François Limbosch
Produzione: La Sept ARTE, Haut et Court, WFE, CNC, PROCIREP
Interpreti: Daniel Hanssens, Pascale Ba, Mil Seghers, Michaeël Pas, Peter Michel, Damien Gillard, Peter Rouffaer, Harry Cleven, Dett Peyskens, Laurent Bibot, Daniel van Avermaet, Emile Ringoot, Daniel van de Voorde, François Lahaye, Julien Cope, Kim Collard, Michèle Laroque
Provenienza: Belgio
Anno: 1998
Durata: 67'
Distribuzione: Lab80




L’autore sfrutta l’occasione dei 2000 vu par… e illustra la situazione di pulizia etnica strisciante in piena Europa, anzi nella città del Governo europeo: il tutto a partire da filmati di repertorio, che s’interrompono solo a pochi giorni dalla fine del secolo. Il risultato è il film con maggior tensione politico-sociale della rassegna. Ma il prologo è ancora meglio congegnato: da un muro prolettico su cui scorrono i titoli, si scivola all’interno di un auto che transita all’altezza di un cartello che decreta la fine di Brüssel-Bruxelles con la classica banda rossa sul nome. Tutto comincia ad assumere un valore negativo; sull’auto un uomo corpulento ha dato un passaggio ad una piacente ciclista, parlano in francese amenamente, poi una barzelletta razzista innesca lo screzio: lei setta il proprio idioma sul fiammingo e lo apostrofa come non autentico belga. Scende.

A questo punto si inseriscono le immagini di repertorio legittimate da un telegiornale di fine millennio, che spiegano ai non-belgi le puntate precedenti all’incidente tra i due. Con garbo ma fermamente, inserendo il piano ufficiale del telegiornale, il regista sposta l’attenzione verso una progressiva balcanizzazione del quadro, che scivola nell’espressionismo attraverso un’intervista arrembante come in Italia non abbiamo mai visto. La vicenda prende lugubremente forma e lascia la disputa linguistica televisiva solo per darne un segno nella società civile, intrecciandola con il fiancheggiamento della coda alla friggitoria; dal basso la cinepresa s’insinua tra gli avventori fino a stampare nelle nostre cornee il volto pacioso dell’automobilista, impegnato a servire un cliente. Il poliziotto fa una battuta sul bilinguismo, che in tempo di pace sembra persino bonaria: un flic di paese, socievole come nei film di Fernandel (a un lavoro del quale forse il film si ispira) e amicone, che si trasformerà in ignavo nel momento in cui gli viene ventilato il sospetto di stare dalla parte dei "terroristi". Il meccanismo nazista del terrore a quel punto è già oliato, tuttavia ci arriviamo preparati, perché già all’inizio si affacciano maschere emblematiche del Belgio e simboli della nazione che si prospettano come gangli attorno ai quali la struttura del film si avvolge, recuperandoli; tutti ampiamente sfruttati per stravolgere la vita quotidiana con il serpeggiante razzismo reciproco a partire dalla realtà attuale e dimostrando che quella condizione da incubo troverebbe facile humus nell’attuale situazione, che il tenero ciccione stigmatizza nei suoi messaggi nascosti nei dolcini smerciati sia ai valloni che ai fiamminghi e di cui prova la violenza sul proprio naso, quando viene picchiato da un invasato, che si distinguerà ‘poi’ nei rastrellamenti (peraltro nella parte vallone guidati dal fratello di Albert, il protagonista).


Tutto è simbolico: la collocazione della friggitoria che verrà tagliata in due dal muro eretto nottetempo (e non è casuale il riferimento a Berlino), il chiosco di patatine, vero legame unitario per tutti i belgi, il buio perpetuato dalla separazione e scandagliato dai riflettori come un lager. Il sole non sorge il primo giorno del 2000 nel Belgio privo di paure millenariste ("è un Paese troppo piccolo", spiega Ivo, dj e ‘poi’ aguzzino) che attanagliano invece i connessi australiani e giapponesi, che fanno capolino dai maxischermi della festa: dimostrando la bravura di Berliner a creare l’attesa degli sviluppi già pre-vedendoli nell’ambiente, anche in questo caso si avverte qualche elemento perturbante, sparso dall’autore e che si scatena nel montaggio parallelo che vede Albert finalmente abbracciato a Wendy (metafora dell’amore interetnico, valida quanto i due fidanzati uccisi sul ponte in Bosnia dai cecchini) alternato ai carpentieri alacremente al lavoro, entità senza volto (le maschere sono spiegate dal narcotizzante sparso per ‘lavorare’ meglio, ma trovano una funzione più precisa nel terrore creato dalla loro misteriosa efficienza senza volto). Quello è davvero il momento di passaggio angoscioso: il momento clou che divide il tempo tra un ‘prima’ e un ‘poi’, forse un po’ troppo contrassegnato da concitazione anche nella fattura, come a voler accumulare e concentrare lì secoli di incomprensioni senza riuscire a dare la vera sensazione di pregiudizievole divisione che invece con maggiore facilità s’evidenzia nell’immediato ‘dopo’.

Sarebbe kafkiano, se non fossimo nel paese di Magritte: anch’egli citato e saccheggiato a piene mani, a partire dall’ectoplasma del padre di Albert, dimenticato dal Cielo e quindi sempre addosso al figlio, figura commovente di suicida (e anche questo elemento ritorna più volte in situazioni disparate), il cui pallore ritagliato molto bene sui fondali scuri aggiunge dosi di espressionismo allo scenario, a lui viene assegnata una delle più belle battute all’indirizzo del fanatico kamikaze ("Sei morto per una causa senza senso, ora che sei ‘dall’altra parte’ la gente ti vorrà più bene", giocando anche sul doppio significato dell’altra parte … del muro). Memore del surrealismo è anche la soluzione prospettata per percepire il muro come costruzione inconscia, probabilmente avesse avuto più tempo il regista avrebbe potuto sviluppare meglio l’accenno alla costruzione in corso di un muro dentro alle persone: non una novità, ma avrebbe completato il compendio di rimandi al nazismo e al periodo dei suoi trionfi con cui il regista tenta un legame tra gli attuali rigurgiti razzisti e l’intolleranza del periodo di Weimar: sembra di leggere i libri di Lotte Eisner, un film-saggio che riassume tutte le tappe della preparazione del genocidio dal punto di vista del patrimonio filmico, saccheggiato con giudizio.

Molti elementi si affastellano in pochissimi minuti e spingono in direzioni opposte la percezione, che si fa concitata quando tutti i dettagli di preparazione si riaffacciano nella notte: il ballo sognato con la scopa - che aveva fatto sorridere occupando alcune sequenze riprese con una maestria che si apprezza a posteriori, quando si ripropongono le immagini - si realizza davvero con la bella ragazza fiamminga e poi il valzer farà da fil rouge fino ai passi di danza dei due amanti sul muro, come fosse una di quelle leziose torte (anche e soprattutto belghe) su cui vengono issati due pupazzi; è l’episodio positivo che infonde speranza in mezzo alla allegorica notte della ragione, popolata da mostri.

Nel bailamme di input proposti (forse troppi per un film di un’ora) emerge con forza il criterio di mostrare situazioni simili in momenti diversi, trasformate dagli eventi, che fa il paio con la corretta analisi dei meccanismi operati dai nazismi per imporsi: addirittura riesce a inscenare i codici tra resistenti per comunicare le informazioni al telefono o la stupidità militare del visto per passare il confine da richiedersi al comune di residenza, posto al di là del muro stesso.

Il meccanismo impostato sulla ripetizione delle situazioni lievemente spostate ogni volta alimenta l’attesa della soluzione di tutte quelle prolessi sparpagliate lungo il film: il messaggio in quei casi è proprio la percezione che, cambiando la prospettiva, la normalità diventa un incubo, la logica si trasforma in burocrazia, la saggezza ("Se c’è un problema, c’è la soluzione") si ribalta contro chi la pronuncia; in un solo caso sintomaticamente il meccanismo anaforico trova invece una duplicazione in tutto uguale e simmetrica, anche nelle riprese che impercettibilmente propongono la medesima brutalità del rastrellamento collocando gli stessi elementi (il camion, i diversi che retrocedono allo stesso modo, quelli che stanno dalla parte giusta bloccati) in spazi speculari a sottolineare la pariteticità del ‘sentimento razzista’ da una parte e dall’altra del muro, oltrepassato con un nuovo intervento linguistico, più esplicito: l’evocazione dello spirito del realismo magico fatta dal fantasma – già di per sé elemento surreale e opzione che nasce da una ricerca avviata da un ricordo di giochi d’infanzia – è l’immaginazione come antidoto all’autoritarismo, associato alle soffocanti suggestioni sulfuree del caligarismo. Questo non significa che l’autore non dimostri un gran mestiere nel ricreare atmosfere espressioniste, anzi: la cifra stilistica del film è tutta compresa nell’alternanza di riferimenti alla duplice tradizione avanguardistica, che si rivela aderente alla materia, anche per i riferimenti storici che evoca.