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Un banco en el parque
Anno: 1999
Regista: Agusti Vila;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Spagna;
Data inserimento nel database: 20-11-1999


Un banco en el parque

UN BANCO EN EL PARQUE


Regia, soggetto e sceneggiatura: Agustí Vila
Fotografia: David Omedes
Montaggio: Miguel Zantamarias
Musica: Ian Briton
Formato: 35 mm.
Provenienza: Spagna
Anno: 1999
Durata: 1 hr. 22 min.



La prima spiacevole impressione è di trovarsi di fronte a un Dogma spagnolo, poi la sgradevole sensazione legata alla camera a mano che non abbandona i due conviventi che si lasciano, rimanendo sempre come appollaiata sulle loro spalle esasperando i campi strettissimi all'inseguimento dei movimenti che disvelano gli spazi di un appartamento abbandonato, si attenua per abbracciare il paradigma rohmeriano esplicitato dalle cene organizzate per accoppiare i single: verbosissime e improntate al conflitto tra posizioni inconciliabili, che scaturiscono nel dissidio e con la inevitabile citazione del testo di riferimento (Le rayon vert)
L'aspetto piacevole del film è quello di proporre momenti diversi unitariamente rappresentati: insegue la comunicazione di singoli aspetti. Infatti dapprincipio mostra la rottura, non più ricomponibile, per passare al momento di osservazione di personaggi, che risultano alieni al mondo costruito nel frattempo allo scopo di costruire una teoria da sperimentare nella parte di film che funge da dimostrazione del teorema, una tesi sostenuta anche attraverso un deus ex machina (lo studente) e due elementi che servono a dimostrare l'assunto che demanda al caso e alla sua magia la possibilità di regolare il caos di un'esistenza senza norme, a partire dal primo dei dialoghi parafilosofici, che cadenza il resto del film sulle proprie autoindulgenze e sulla propensione alla dissertazione supponente, da cui non si libererà lungo tutti i temi trattati. Gli argomenti trovano un primo intoppo nel fatto che sono suggeriti come se la sequenza avesse una sorta di titolo; un cappello fastidioso che conferisce alle sequenze un aspetto didattico, di cui il regista sembra accorgersi e pare volersi liberare con il tipico espediente dell'ironia o della battuta divertente, talvolta azzeccata, ma che non riesce ad affrancare il film dalla sensazione didascalica in cui la costringe la divisione per macrotemi. Ancora più sottolineati dai fotogrammi in nero che dividono le sequenze.

La filosofia che viene divulgata attraverso il testo è una strategia che pone la casualità e il destino (forse il giansenismo di Rohmer in questo caso viene un po' banalizzato) al centro, demandandogli ogni potere, addirittura leggendo gli insuccessi come forzature di scelte che avrebbero dovuto mantenersi più neutrali e succubi degli scherzi del destino, benché siano già sufficientemente prone agli scherzi del fato. L'interesse della pellicola si riduce (e non è poco) ai temi in cui si divide il canovaccio e che sono sviscerati sotto aspetto di racconti morali, dapprima nella tipica orma del desco ripreso con movimento circolare a isolare i singoli casi di conflitto - e in questo caso i temi sono ristretti al vivere da soli o in coppia, sulla maggiore tristezza della situazione solipsistica e sulla curiosità morbosa che trascende a livello di interrogatorio - e i momenti di reale divertimento (come il caso della definizione dei temi che si possono trattare in un soliloquio ad alta voce) trovano nella violenza degli attacchi alle scelte vegetariane i momenti più convincenti, nonostante il facile espediente della camera in perenne movimento. Questo atteggiamento scatena una serie ininterrotta di interrogatori stringenti e violenti che preludono alla terza porzione del film, la più estesa e corredata di gustosi dettagli anche e soprattutto formali, nei quali si notano tutti i raccordi, volutamente diluiti per evidenziare la condizione di attesa sulla panchina, piuttosto che nel bar: i due luoghi deputati all'attesa dell'epifania del futuro. Atteggiamento che demanda alla sorte la casualità degli incontri che dovrebbero cambiare il corso della vita e che consentono al testo di prendersi le pause e i ritmi indispensabili per dare al caso l'aspetto di una trama intessuta e cadenzata dai riti quotidiani innescati dalle tre persone che hanno accettato di affidarsi al caso per superare la propria solitudine.
Saranno le corse dei cani a rivelare a Juan quale sia il giusto atteggiamento per superare la rottura con Teresa e affidarsi non al caso, ma "prepararsi per affrontare la fortuna", concetto ribadito più volte. Per accentuare questa scelta di staticità dell'individuo il regista sceglie di evidenziare una sequenza in cui Juan (poi emulato da Alicia immediatamente dopo l'intrusione dell'analisi effettuata dallo studente) rimane immoto sulla panchina e per conferire movimento all'inquadratura l'autore muove la cinepresa per poi ridislocarla esattamente dove si trovava precedentemente, riprendendo la ripresa del soggetto immobile; non solo, ma nel finale Juan si sottopone al calco in gesso perpetrato dal suo amico scultore che vediamo all'inizio: un episodio che sottolinea la immobilità del personaggio, costretto dal gesso a rimanere immobile.. Poi la dissertazione si sposta su un piano apparentemente opposto, ma mosso da presupposti simili (e riconducibile a Ma nuit chez Maud per l'indecisione del personaggio maschile roso dall'impossibilità di scegliere tra due caratteri così diversi) che riconducono la speculazione filosofica verso metafisiche forti come il demandare decisioni estemporanee al riconoscimento del momento ideale.
Ovviamente, trattandosi di un epigono di Rohmer non può mancare al discettazione sulla fedeltà, la gelosia, finché si evidenzia la realizzazione del piano di Alicia, la ventenne incontrata sulla panchina e pronta a cogliere la profferta silenziosa del solitario Juan ("Sono 53 minuti che aspetto che capiti qualcosa"), la quale aveva pianificato una soluzione punitiva nei confronti di Juan, senza porla in atto, ma ottenendo lo stesso risultato, mentre dall'altro lato Ana in attesa al bar per parlare con i propri fantasmi viene fulminata con il diniego di volerla chiamare in attesa del "momento ideale", che con non poca posa letteraria aveva lei per prima escogitato.
Il finale accentua l'uso sconsiderato della soggettiva che poi si rivela falsa; invece appare efficace l'utilizzo del montaggio delle situazioni: i tre personaggi dislocati negli spazi che li hanno visti protagonisti, ma in attesa l'uno dell'altro senza mai incontrarsi nelle varie combinazioni possibili, creano un cortocircuito di scuola francese, ma pur sempre godibile. Mentre appaiono giustapposte le ricercate citazioni verbali di film (L'innocente di Visconti, piuttosto che la battuta sciovinista sul cinema statunitense che sembra un ospedale in cui si trapiantano i dialoghi da una pellicola all'altra), che non aggiungono nulla al film, se non un riferimento in più per collocare le scelte registiche del regista.


visto al © 1999 Torino Film Festival No rights reserved