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American Beauty
Anno: 1999
Regista: Sam Mendes;
Autore Recensione: Alberto Corsani
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 12-03-2000


American Beauty

American Beauty parte con un handicap di cui hanno già detto in molti: sembra difficile trovare qualcosa, nella descrizione di quell’ambiente, di quei personaggi e di quelle vite, che già non sappiamo. Sappiamo infatti, chi più chi meno: quanto sia falso il mondo degli immobiliari, il loro modo di presentarti le case, quanto affettata la loro vita, e vacua; quanta propensione all’esaltazione ci sia in molti ufficiali di carriera (non tutti), anche non dei marines; quanta presunzione ci sia negli adolescenti, che poi si rivelano molto più fragili e bisognosi di relazioni con adulti (a condizione che questi ultimi siano realmente tali e non siano, come cantava Jacques Brel, diventati vecchi senza essere stati adulti); quanto il poco tempo da dedicare ai figli venga "compensato" dai molti soldi; quanto i peggiori nemici, sul posto di lavoro, siano quelli che credi vicini a te, e quanto si debba sgomitare per far fuori i rivali alla promozione; quanto sia cinico il mercato del lavoro. Lo sappiamo tutti. Allora forse il senso di un film del genere sta nel fatto che questa mediocrità, squallida e ricca, non è fenomeno marginale ma riguarda un sacco di individui; un normale "estremismo di centro". In un ambiente di falsità, dunque, di superficialità e di apparenza (sotto lo schizzato c’è un razionale manager del proprio piccolo crimine, sotto il nazistone c’è il gay, sotto la lolita c’è una ragazzina fragile fragile e via dicendo...), le poche verità che i personaggi si dicono sono già anch’esse frasi fatte (a volte le frasi fatte rappresentano anche qualcosa di sensato, magari ovvio), del tipo: devi credere solo in te stessa. Tutto il resto lo sapevamo già. Ma allora ha senso farselo dire da un film? E come lo dovrà dire questo film? Sembra domanda banale: non ce lo chiediamo in fondo per tutti i film?.

Più da vicino, come può cercare un film del genere di rappresentare il mondo che ha scelto di rappresentare? La strada forse più facilmente individuabile (non dico necessariamente la migliore, forse nemmeno quella più radicale, ma quella più chiara) mi sembra quella della "trilogia" di Loach (Riff raff, Piovono pietre, Ladybird Ladybird), in cui l’allestimento è quello della commedia, ma i toni sono talmente sopra le righe, l’esasperazione del linguaggio parlato e la compressione dei tempi sono talmente forzati che creano quel muro, quella finestra, quell’ostacolo da scavalcare che ci fa riconoscere che "di qua" ci stiamo noi a vedere (e prima ci stava Loach a filmare, a costruire la propria idea su quel microcosmo) e "di là" ci stanno i disoccupati, i figli, la prima comunione, le assistenti sociali, taglieggiatori, grassatori, biscazzieri, poliziotti e compagnia cantando. Ora, in American Beauty sembra che manchi questa chiarezza di linguaggio, sembra che manchi la voglia di prendere partito, sembra che manchi il gesto autorevole (non autoritario, perché quello sarebbe Kieslowski) di chi si pone come osservatore, di chi riesce ad allestire lo spettacolo di un mondo (un "altro reale", secondo Edoardo Bruno, formula eloquentissima) individuabile come tale, che sia oggetto della propria osservazione. Qui mi sembra che l’autore (io ci credo ancora all’autore, lo so che sono rétro) non sappia bene se rappresentare questa realtà o sguazzarci dentro. Né vale (e infatti per fortuna abbandona questa strada) sconfinare nella connotazione del sogno della rosa/delle rose, perché questo, per contrasto, non fa che sottolineare ancora il tono "di adesione alla materia" che pare di vedere nel film. Sappiamo bene, invece, che realtà vera e immaginazione possono succedersi tranquillamente sullo schermo, senza bisogno di ricorrere a sovrimpressioni, ridondanza musicale, dissolvenze, effetti speciali: apparati che sono sempre esistiti e sono stati ben utilizzati, ma che non sono l’unica strada per far vedere che stiamo passando da un piano "reale" a uno dell’immaginario (o del ricordo o del sogno): Buñuel (lo so che è fuori competizione...) alternava le une e le altre sequenze (penso alla Via lattea e al Fantasma della libertà o anche al Fascino discreto della borghesia) senza utilizzare diavolerie di nessun genere: la portata delle sue allusioni era tale che se ne faceva a meno. Dove invece bisogna "sottolineare" il cambio di registro siamo deboli. E gravano sul film le citazioni, dal Bowie che bacia Sakamoto alla fine di Merry Christmas mr. Lawrence (Furyo), all’uso della videocamera alla Soderbergh (ma anche Nick’s Movie e in qualche modo Crash), alla ripresa della busta di plastica (ti aspetti la Vitti che si aggira per Ravenna e trova il foglio che svolazza giù dalla finestra) al volto truce del nazistone infradiciato, brutta copia di Rutger Hauer sul cornicione. L’uso del video sembra anzi un tentativo estremo, un artificio per prendere le distanze che il film non riesce a prendere compiutamente dalla materia.

Ma allora? Mendes sta dentro un ambiente (quello della realtà del film, non quello sociale) che è tragico e grottesco (come spesso accade), senza le spigolosità del bellissimo La storia di Agnes Browne, ci sta, direi, con mestizia e con rassegnazione: e questo è alla fin fine un atteggiamento mica tanto sbagliato, detto così, soggettivamente. Il dramma del protagonista che sbaglia tutta una vita, si fa del male volendola cambiare, scopre la verità (cercando di fare da padre per una volta, anche se non alla figlia sua) e poi viene ucciso sarebbe stato "troppo dramma". Forse personaggi così non meritano questo tono; forse stanno due spanne sotto. Non squallidi, nemmeno falliti ma incompiuti sì, riusciti a metà e per questo gravati di destino più dei "perdenti in partenza". Il protagonista non è successore di Humbert Humbert, ma nipotino di Willy Loman (Morte di un commesso viaggiatore, sentiamoci liberi di considerare anche solo il dramma di T. Williams). Registra il proprio fallimento, prende atto e ci si incaponisce: forse così è per l’autore del film; diventa un dramma il fatto di "non riuscire a uscirne", impresa disperata. C’è un senso del destino, o meglio dell’inesorabile, di quell’inesorabilità che accenna volta per volta alle possibili svolte o false piste che potrebbero essere prese dagli eventi e che poi vengono fallite una dopo l’altra; ma, rispetto a Hitch, manca l’argine, la chiarezza dei ruoli, io di qua tu di là. American Beauty vuole essere freddo (quello che riusciva a Sesso, bugie e videotapes) ma convince di più, paradossalmente, quando si perde nell’indefinito e nel non chiarito, quando il dramma scompagina la verosimiglianza: tutta la conclusione, direi, illuminata (soprattutto a vedere l’esterno attraverso la porta finestra) con una luce che non ti ci raccapezzi più (ma che diamine di ora sarà? l’alba? notte fonda?). Forse su gente di questa fatta non si può dire davvero niente di più, forse stanno provando a invaderci dall’interno. Aiuto...