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E ora dove andiamo? - "Et maintenant, on va où?
Anno: 2011
Regista: Nadine Labari;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Francia; Libano; Egitto; Italia;
Data inserimento nel database: 27-01-2012


“Brigitte è una santa.” Il Libano è una terra consacrata allo sviluppo religioso. In questa piccola nazione è fiorita, coltivata ed emersa una sensibile varietà di consacrazioni spirituali. Il governo libanese riconosce ufficialmente diciotto gruppi religiosi:cristiana maronita, cristiana greco-ortodossa, cristiana greco-cattolica (melchita), cristiana armena apostolica, cristiana armeno-cattolica, cristiana siriaco-ortodossa, cristiana siriaco-cattolica, cristiana protestante, cristiana copta, cristiana assira, cristiana caldea, cristiana cattolica di rito latino, musulmani sanniti, musulmani sciiti, musulmani ismailita, comunità alauita, comunità drusa, ebrei. Dal sito del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti leggiamo alcune caratteristiche sul Libano. La costituzione prevede la libertà di religione, un accordo polito non scritto stabilisce una divisione - fra i tre principali gruppi religiosi - dei massimi poteri dello stato e l’identità religiosa deve essere indicata nella carta d’identità. Questo crogiolo di religioni per lunghissimo tempo è stato un propulsore per la crescita del paese. Differenti culture, modi di approccio diverso avevano arricchito di un multiculturalismo internazionale il Libano, fino ad una poderosa crescita economica. Poi la vicinanza a dei centri di tensione ha portato una deriva ed una rottura degli elementi unificatori. Siamo al periodo dello scoppio di guerre, invasioni e una terribile acredine religiosa, fino alla spaventosa guerra civile. Nadine Labari è una regista libanese, conosce il suo paese. La distinzione fra cristiani e musulmani è virtuale, tutti possono volersi bene e vivere pacificamente nelle loro piccole comunità. Ma se influenze esterne alimentano le divergenze, anziché privilegiare gli elementi unificatori, si arriva a conseguenze terribile. “Noi siamo figli dello stesso villaggio” è questo l’elemento d’unione. In un piccolo è sperduto paese del Libano è difficile uscire ed entrare perché il ponte è stato distrutto. Per raggiungere le città bisogna arrampicarsi come una capra su per un sentiero impossibile. Il film si apre con un campo lungo, verticale e lineare del paese: sulla stessa retta sono posti a destra la moschea e a sinistra la chiesa. Perché la popolazione è divisa fra musulmani e cristiani. “Qui ci sono più morti che vivi” perché mariti e figli maggiori sono seppelliti nel cimitero, uccisi dalla guerra civile. Come alimentare una speranza pacifica in un paese periferico? Non è facile, perché gli uomini vivono le tensioni in modo intenso. Non possono sfogare le loro pulsioni litigiose. Sono carichi e violenti, ogni motivo può portare ad accrescere una tensione lancinante. Eppure gli uomini sono amici, si rispettano, si vogliono bene. Però questo è insufficiente, inutile. Ad impedire la catastrofe ci possono riuscire solo le persone maggiormente vittime del dolore e della sofferenza. Queste sono le donne del paese : “Il nostro destino è solo quello di portare il lutto per sempre.” Il film si apre con una danza passionale, mediorientale: tutte le donne marciano a suon di musica verso il cimitero. Portano un saluto ai loro mariti, ai figli scomparsi in guerra. Vestite di nero – in contrasto con la luce di un caldo sole libanese – danzano e portano in grembo il loro dolore. Arrivate al cimitero, il loro ondeggiare ritmico si suddivide: a destra le musulmane, e a sinistra le cristiane. Ma fra loro non c’è differenza. Tutte condividono e partecipano al terribile rito: il pianto dei giovani morti in un’inutile guerra. La solidarietà nel villaggio è rappresentata da una comica ricerca di portare la televisione nel paese. L’unico posto dove la parabola capta un segnale è in cima ad una collina. Su quest’ameno cucuzzolo si radunano la sera – in un ambiente pieno di candele, quasi a celebrare il rito televisivo – gli abitanti del villaggio. Ma i programmi arrivano da lontano e propongono cattive notizie. La rabbia esterna non rimarrà fuori per molto. I maschi saranno preda delle loro pulsioni non scaricate. La battaglia sarà da quel momento una sfida fra uomini e donne; e queste ultime hanno la consapevolezza di essere le promotrici esclusive della pace nel paese. Inizia una sequela di diatribe fra l’ironico e il drammatico. La volontà passionale delle femmine da come frutto delle invenzioni originali e compensative. Uno dei motivi delle tensioni è la mancanza di uno sfogo degli testosteroni degli uomini. Lo psichiatra Wilhelm Reich tentò di appropriarsi della energia sessuale, utilizzando macchine e strumenti. Il risultato fu un arresto da parte d’agenti della FBI. Come Reich le donne vogliono impossessarsi dell’energia degli uomini per canalizzarla verso una passionalità sensuale, scacciando in questo modo le tensioni violente. Il film continua con descrizioni ironiche dei vari tentativi; sullo sfondo c’è continuamente la drammaticità del confronto. Sono le donne, dolenti per i lutti, ad essere consapevoli di dover mantenere un livello leggero e sensibile. Se si abbandonasse questa struttura, il risultato per il paese, sarebbe la sua estinzione. Con un susseguirsi di derive umoristiche la battaglia si combatte senza esclusione di colpi. La stupidità degli uomini è affrontata con spavalda ironia da donne combattive. La loro superiorità è dimostrabile con i loro canti corali o con delle visioni oniriche. Nei momenti musicali le signore mostrano il loro amore e la loro passionalità. Le fantasticherie femminili sono curate nel dettaglio, anche ironizzando su se stesse. Come la Madonna piangente sangue o i tappeti della moschea calpestati da capre. Però il viaggio alla pacificazione è impervio come il sentiero utilizzato per raggiungere il paese. Troppo forti le pressioni estranee. Alle donne rimane un’unica soluzione. Una risoluzione che non avrebbero mai voluto prendere, perché contro la loro tradizione e la loro cultura: un vero e proprio sovvertimento umano. Però, non avevano altra scelta. Solo in questo maniera possono misurare l’ultima reazione umana dei figli. Un film tutto al femminile. I soli due uomini al loro fianco sono l’imam ed il prete. La religione diventa al femminea, ed un alleato reale per combattere la pace. Donne e religioni sono l’ultimo baluardo della concordia. L’imam ed il prete accetteranno la sedizione umana proposta da madri e sorelle disperate, perché, anche se contrario alle loro finalità, capiscono la loro prostrazione. La pellicola punta tutto sulle muliebri interpreti. La loro recitazione è un livello sopra le righe rispetto a quella maschile. A volte si trasformano in maschere o di dolore o comiche. Le loro danze, i canti sono il linguaggio, la cifra stilistica della regista. L’ammantata terra solare libanese, riflette una luce profonda e viva. Pure il cimitero, ultima destinazione finale, diviene una separazione netta. La rivoluzione dei ruoli comporta un’inquietante domanda sul posizionamento in una terra bellissima ma burrascosa. Nel villaggio c’è un matto, la classica persona il cui lume della ragione è svanito. È la persona che con la sua bizzarra pazzia: “non sa più se è cristiano o musulmano.” E questa frase, collocata all’interno della narrazione, si collega con la domanda finale, riportando alla luce tutta una discussione sul ruolo delle donne. La traccia del film è tutta su una separazione dicotomica. Paese, cimitero, persone, natura si spaccano in due, trovano una loro comune posizione per poi dividersi. Così per i rapporti umani: donne e uomini si uniscono e si separano. Come nel sogno di Amale (procace cristiana) e Rabih (avvenente uomo musulmano). La loro passione è forte, ma permane questa divisione incolmabile. Il cinema la descrive unendo nella stessa scena, i loro sguardi, scambiati con finta indifferenza, con il loro sogno ad occhi aperti di un ballo carnale e lussurioso fra i due. Il ripudio religioso e la passione di congiungersi coesistono nella stessa sequenza.