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Last Life in the Universe
Anno: 2003
Regista: Pen-ek Ratanaruang;
Autore Recensione: Andrea Caramanna-
Provenienza: Tailandia;
Data inserimento nel database: 31-08-2003


Last life in the universe
Visto a Venezia 2003
Visto a Venezia 2003

Last Life in the Universe
Regia: Pen-ek Ratanaruang
Sceneggiatura: Prabda Yoon, Pen-ek Ratanaruang
Fotografia: Christopher Doyle
Scenografia: Saksiri Chantarangsri
Montaggio: Pattamanadda Yukol
Musica: Hualampong Riodi
Costumi: Sombatsara Teerasaroch
Interpreti: Asano Tadanobu, Sinitta Boonyasak, Matsushige Yutaka, Takeuchi Riki, Miike Takashi, Laila Boonyasak, Tanaka “Boba” Yohji, Sato Sakichi
Produttori: Nonze Nimibutr, Duangkamol Limchaoren, Wouter Barendrecht
Produzione: Cinemasia (Tailandia), Bohemian Films (USA)
Distribuzione internazionale: Fortissimo Film Sales
Distribuzione italiana: Metacinema
Anno di produzione: 2003
Durata: 112’
Formato 35 mm (1:1,85), colore
Sonoro Dolby SR
Versione originale thai

Dalla nevrosi dello spazio domestico alla fobia dell'ordine verso il disfacimento del caos della periferia selvaggia. La relazione impetuosa scivola lungo il crinale follemente psicologico dei due protagonisti Kenji e Noi. Laddove le sindromi esplodono quiete o laceranti. I movimenti principali sono diretti verso la percezione dell'opposto. L'ordine con il disordine, la sicurezza con l'incertezza ossessionante. Nel film contano quindi le distribuzioni percettive degli ambienti, i dettagli, le misure, e naturalmente le luci (di Christopher Doyle): l'atmosfera completamente rarefatta dell'appartamento associata alla disturbante localizzazione degli oggetti. Innanzitutto i libri disposti in file ordinate che riproducono automaticamente la spazializzazione della biblioteca. E poi gli abiti tutti uguali pronti al perturbante uso ripetitivo, di una forma immobile che si ripete per paura di farsi contaminare da un minimo segno di differenza. Questa dimensione di forte differenza irrompe distruggendo tutte le logiche malate di quest'ordine. L'incidente è già il segno di un cambiamento profondo di rotta, di un inizio, e di un percorso che finalmente si apre a nuovi inediti orizzonti del tutto fuori, lontani dalle serie di procedure routinarie. La periferia della città come terreno selvaggio in cui la civiltà si è arresa al sogno "occidentale" dell'ordinato e pulito (dove in Giappone entrambe le caratteristiche convivono in modo così conflittuale da spingere al... suicidio?).
Last life in the universe descrive in maniera disperata l'unicità di ciascuna vita, la solitudine insormontabile. Per questo l'incontro tra Kenji e Noi è un po' la misura dell'Utopia, del luogo desiderante che solo può svelarsi avvicinandosi, convivendo con le differenze più profonde. Non solo quelle di abitudini, di carattere, ma quelle linguistiche. Il confronto tra giapponese e tailandese dimostra quanti stimoli possono esserci nello sforzo continuo, pervicace di due linguaggi per incontrarsi in tanti luoghi intermedi della parola, le lingue madri e l'inglese. Senza tuttavia dimenticare che la prima materia comunicante e il silenzio del corpo che infine si sciogli in una gestualità dall'espressione vivissima. In effetti Last life in the universe è assolutamente penetrante per la nettezza dei gesti, che si accumulano gradualmente costruendo uno dei più interessanti (e visibili) laboratori umani.