Finalmente posso segnalare la distribuzione presso gli schermi italiani di
un film del regista Majid Majidi, Baran, che consente di aggiungere un nuovo tassello alla disamina prestata in
questa rubrica alla cinematografia iraniana.
Avevo già avuto occasione di conoscere unaltra opera del regista, inedita in
Italia, durante un soggiorno a Londra nellestate di tre anni fa, Children of
Heaven (Bambini del Paradiso, Iran, 1997), che conteneva "in nuce" gli
stilemi registici che nellultimo film diventano maniera, ossia capacità di offrire
spunti poetici che sconfinano nel ritratto morale e al contempo sono in grado di
raccontare storie radicate nella tradizione neo-realista del paese.
Nel film precedente lo smarrimento di un paio di scarpe della sorella di un ragazzino
iraniano innescava vicissitudini avventurose in un flusso di eventi quotidiani, al punto
che la vittoria al termine di una corsa, che aveva come premio proprio un paio delle
ambite calzature (dettagli sempre pregnanti di questo regista che o è un feticista o è un ex ciabattino), veniva vissuta dal protagonista con evidente sconcerto: alla felicità
di essere riuscito a riparare alla mancanza faceva da contraltare limmagine dei suoi
piedi tumefatti e affaticati, messi in refrigerio presso la domestica vasca dei pesci. In Baran
proprio linquadratura finale dellorma lasciata dalla calzatura della ragazza,
ormai in partenza verso lAfghanistan, riempita dallacqua di un improvviso
acquazzone, è destinata anchessa a scomparire, per lasciare il giovane Lateef
infitto in una completa solitudine, privato anche del conforto che poteva derivare dalla
contemplazione di unimpronta, assunta al rango di "pars pro toto" di colei
che sta sparendo dal proprio orizzonte fisico e ideale. Nonostante ciò quellorma
rimarrà impressa nel suo cuore, a testimonare la tenuta degli affetti al di là delle
separazioni.
Majidi ha il coraggio di affrontare il problema degli immigrati, in una società complessa
come quella iraniana, che sta vivendo in questi giorni conflitti e rivendicazioni di
libertà da parte dei giovani stanchi del regime teocratico degli ayatollah, a cui si
aggiungono tensioni sociali dovute a forti flussi migratori, per certi versi difficili da
comprendere per noi occidentali. Gli afghani sono i paria che vivono ai margini, quelli di
cui non si parla più o non si è mai parlato, fuggiti di fronte alla prospettiva di
unoccupazione sovietica, cui ha fatto seguito la dittatura talebana e la guerra più
recente, inferta dagli Stati Uniti per ragioni umanitarie, in realtà copertura di ben
altri interessi economici, che nulla hanno a che vedere con il riportare la democrazia in
quella nazione travagliata, i cui profughi si trovano a essere mal tollerati persino dai
vicini iraniani, che dovrebbero sentirsi affratellati per comunanze di costumi e visioni
del mondo. Da sempre gli afghani, descritti nei film iraniani (si pensi a Delbaran di cui si è già parlato), diventano il simbolo dellumanità
derelitta, clandestina, senza identità, costretta a ricorrere a espedienti tipici del
lavoro nero per poter sopravvivere in quella giungla che li sta ospitando malvolentieri.
Sono gli sfigati per eccellenza, ultimi anelli di una catena di sfruttamento
delluomo sulluomo, che sembra non lasciar spazio alla compassione, benché il
film cerchi di dimostrare proprio il rovescio della medaglia.
Un cartello in nero, giustapposto ai titoli di testa, definisce il contesto in cui si
situa la vicenda narrata e al contempo chiarisce lentità dello sradicamento
avvertito dai giovani profughi: non cittadini in Iran, per quanto vi siano nati, non
registrati in Afghanistan, una patria che non hanno mai conosciuto.
"Nel 1979 lUnione Sovietica invase
lAfghanistan. Quando le truppe Sovietiche si ritirarono, 10 anni dopo, il paese era
diventato il fantasma di quello che era una volta.
La devastazione, congiunta alla guerra civile che seguì il brutale dominio del regime
Talebano, e tre anni di siccità spinsero milioni di Afghani a lasciare il proprio paese.
Le Nazioni Unite stimano che lIran attualmente ospiti un milione e mezzo di profughi
Afghani. La maggior parte della giovane generazione è nata in Iran, e non è mai stata in
patria".
Nel corso di questi lunghi anni i milioni di afghani illegalmente affluiti in Iran si sono
sobbarcati i lavori più duri e faticosi che si possano immaginare, senza contare il
numero di quelli morti per incidenti sul lavoro o quelli scomparsi in circostanze
misteriose, che i giornali e la televisione non si peritano di nominare.
Il microcosmo descritto da Majidi trova il suo centro in un cantiere
fatiscente, fatto di edifici bui e labirintici (dove non si capisce mai quali muri vengano
costruiti e quali distrutti), spesso avvolti dalla nebbia o dai vapori, talvolta ripresi
dallesterno, quando intervengono i fiocchi di neve a isolarli dal resto del mondo.
Qui lavora, in qualità di vivandiere, il giovane Lateef, un campagnolo iraniano, un
po scansafatiche, che alterna momenti di allegria ad atteggiamenti da attaccabrighe.
È stato affidato dal padre al capocantiere Memar, che trattiene la sua paga non solo per
evitare che il ragazzo la possa sperperare, ma soprattutto per poterlo sfruttare e
ricattare di continuo, con toni paternalistici. Lo vediamo sempre in movimento, su e giù per le scale, tra
unimpalcatura e laltra dei ponteggi precari con in mano il vassoio su cui sono
appoggiati alla belle meglio i bicchieri di tè fumante, oppure di corsa verso lo
spaccio, dove, solo dopo aver mostrato il proprio documento di identità, gli verranno
consegnati i viveri necessari per sfamare i lavoratori del cantiere, alle scorte finisce per
aggiungere un leccalecca, che succhia voluttuosamente, con unespressione di sfida
ribalda e al contempo birichina, tipica di chi sa fregare ingenuamente la fiducia degli
altri, gli adulti.
A lavorare nel cantiere sono soprattutto gli afghani clandestini,
costretti a nascondersi o a scappare ogni qualvolta faccia irruzione lispettore del
ministero del lavoro: a una vita di stenti si aggiunge così la paura quotidiana di essere
colti sul fatto, langoscia di essere sorpresi, mentre si sta
"abusivamente" morendo di fatica per sbarcare il lunario. Un giorno un muratore
afghano cade da unimpalcatura, ferendosi gravemente a un piede: subito
lincidente viene occultato grazie alla forzata omertà a cui vengono costretti i
testimoni. Al lavoratore non viene nemmeno corrisposto un indennizzo, un misero pugno di
soldi, che avrebbe almeno messo a tacere la coscienza di chi lo stava sfruttando. Qualche
giorno dopo si presenta al cantiere, accompagnato dallo zio, il figlio del ferito, Rahmat,
un giovane minuto e tutto infagottato, che spera di potersi sostituire al padre per
provvedere al mantenimento della famiglia. Memar decide di metterlo alla prova, ma il
ragazzino è troppo gracile per poter portare i pesanti sacchi di calce su e giù per le
scale, così gli viene affidata la mansione di Lateef: fare il vivandiere.
Questultimo per punizione, in quanto testa calda pronta ad acciuffarsi per un
nonnulla, viene declassato e sarà costretto a faticare al posto di Rahmat.
Visibilmente contrariato, Lateef cerca di vendicarsi come può, ossia
ricorrendo a stratagemmi infantili (di vedetta sul tetto spia larrivo del ragazzo e
di suo zio per imbrattarli di calce, fatta scivolare volutamente, oppure rifiuta con
sgarbo il tè che gli viene gentilmente offerto, gettando il contenuto del bicchiere nel
bitume fumante ...), finché non scopre che Rahmat è in realtà una fanciulla travestita,
una splendida Baran, di cui si innamora perdutamente. Lamore trasfigura anche la
narrazione filmica: fin qui giocata su antagonismi, conflitti, rimarcati anche dai tagli
dellinquadratura, da una parte si collocava il ragazzo, dallaltra la ragazza,
in mezzo il capocantiere. Dal momento in cui il giovane si innamora, la ragazza quasi
sparisce dallinquadratura, diventa una sorta di figura angelicata, spiata o
inseguita di continuo, perché sempre più evanescente, fino a sparire del tutto, coperta
dal burka (non avremo il piacere di sentire neanche la sua voce, perché non dirà una
sola battuta per tutto il film, limitandosi a recitare con i gesti e la forza del suo
sguardo penetrante).
Dalla rivelazione in poi il film cambia infatti registro: da indagine sociale, attenta a
descrivere le fatiscenti condizioni di lavoro di un gruppo di immigrati, si trasforma in
odissea sentimentale di un giovane, che, in segreto e senza mai dichiararsi, moltiplica i
suoi sforzi per aiutare Baran. Dapprima si industria a coprire la ragazza, per timore che
la sua vera identità venga scoperta, in seguito laiuta a scappare prima che venga
arrestata dagli ispettori, come non bastasse si inventa uno stratagemma per far pervenire
alla famiglia i suoi risparmi, infine vende persino il suo documento di identità,
lunico che gli consentiva di differenziarsi dal destino dei clandestini.
Questultimo suo gesto, se da un lato può essere colto come totale abbandono alla
condizione dellamata per uniformarsi a lei, dallaltro diventa metafora della
perdita della propria identità: il nuovo sentimento avvertito scompagina il suo essere e
non gli consente di ricorrere a punti di riferimento legittimati dalla sua tradizione.
Queste spogliazioni finiscono per liberarlo anche dai pregiudizi, legati al possesso e
alla proprietà (regala infatti tutti i suoi soldi) e allappartenenza a una società
che gli riconosceva il diritto alla cittadinanza, simboleggiato dalla carta di identità.
Il film non spiega perché sia così importante separarsi dal proprio documento di
identità, forse in Iran non rilasciano duplicati in caso di perdita e di smarrimento,
casuale o intenzionale.
Interessante come viene documentato nel film il progressivo svelamento
della natura femminile: quando Lateef, arrabbiato per il cambio di mansione, mette a
soqquadro l'angolo adibito a cucina e ripostiglio, subito la ragazza non si lascia
intimorire, rassetta i cocci del vasellame, riordina gli arnesi sulle mensole, appende una
tenda colorata a mo di porta, per separare il suo regno dal resto del cantiere, ma
soprattutto la scorgiamo intenta a lustrare una sorta di superficie riflettente (lo
specchio che consentirà al protagonista di scoprire la vera identità di Baran, mentre si
sta pettinando i lunghi capelli, per un attimo liberati dal fastidioso copricapo maschile)
o ad appoggiare una piantina, per ingentilire un ambiente ostile, che è tale sia
allinterno del cantiere, sia allesterno in tutti gli altri lavori che le
verranno prospettati. Se da un lato il regista accoglie e aderisce a uno stereotipo
diffuso, che vede la donna regina incontrastata della casa, da cui non può uscire e di
cui si deve occupare quotidianamente, dallaltro sottolinea lumanità di questo
lavoro: non solo è adatto a lei per costituzione fisica e per tradizione, ma di certo è
di gran lunga meno faticoso rispetto al trasportare sacchi o massi, che la vedono
impegnata in altre inquadrature. Il dettaglio della piantina e la superficie, seppur
semi-opaca, dello specchio, portano una nota di colore al film, finora giocato in penombra
o in spazi alquanto bui e fumosi.
Luso del dettaglio è una cifra sintattica dei film di Majidi: in Children of
Heaven insisteva sulla callosità e sulla stoffa del grembiule del calzolaio, mentre
il movimento dellago intesseva una storia di dignitosa povertà e delicati
sentimenti infantili, come linsistenza sullinquadratura iniziale delle scarpe
finiva per trasformarle in allegoria di tutto il film. In Baran sono numerosi i
dettagli che mostrano oggetti-affezione, capaci di rappresentare o racchiudere
unemozione: il fermacapelli, smarrito dalla ragazza, finisce con il decorare come un
gioiello il cappello di Lateef, la scarpa, imprigionata nel fango e prontamente calzata
dalla giovane con il suo aiuto, lascia invece unimpronta, indelebile solo nel cuore
del ragazzo.
Tutta la storia viene narrata in numerosi e brevissimi quadri (alcuni
anche tragi-comici); le riprese dedicate alla ricerca della giovane conferiscono molto
brio al racconto perché mostrano Lateef impegnato ad arrancare tra stradine di quartieri
sconosciuti. Ma una volta sbrigata la pratica della trama, il regista sembra abbandonarsi
allo stato d'animo del ragazzino, allora indugia nel ripresentare una stessa inquadratura,
cambiando solo i personaggi: laddove avevamo visto Baran intenta a nutrire i piccioni con
le briciole avanzate dalla mensa del cantiere, ritroviamo qualche sequenza dopo Lateef a
ripetere i medesimi gesti, non solo per continuare l'abitudine dell'amata, ma per poterla,
così facendo, amare in sua assenza.
Spezzoni di questo genere, che consentono una pausa del racconto principale e aprono uno
squarcio sulla dimensione affettiva del giovane, potrebbero essere eliminati, ma sono in
realtà il succo del film: un tassello utile anche per comporre l'immagine di un Iran
preservato dalla corruzione dei "valori" occidentali e ancora pervaso da
emozioni semplici, in cui possono sbocciare impensate solidarietà, gesti generosi e amori
impossibili.