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Baran
Anno: 2003
Regista: Majid Majidi;
Autore Recensione: paola tarino
Provenienza: Iran;
Data inserimento nel database: 16-06-2003


Baran di Majidi

In nome di Dio, nemmeno il conforto di un'orma ...

Baran e Lateef: i due protagonisti
Regia: Majid Majidi, Iran, 2002
Interpreti principali: Hossein Abedini, Mohammad Reza Naji, Zahra Bahrami

Finalmente posso segnalare la distribuzione presso gli schermi italiani di un film del regista Majid Majidi, Baran, che consente di aggiungere un nuovo tassello alla disamina prestata in questa rubrica alla cinematografia iraniana.
Avevo già avuto occasione di conoscere un’altra opera del regista, inedita in Italia, durante un soggiorno a Londra nell’estate di tre anni fa, Children of Heaven (Bambini del Paradiso, Iran, 1997), che conteneva "in nuce" gli stilemi registici che nell’ultimo film diventano maniera, ossia capacità di offrire spunti poetici che sconfinano nel ritratto morale e al contempo sono in grado di raccontare storie radicate nella tradizione neo-realista del paese.
Nel film precedente lo smarrimento di un paio di scarpe della sorella di un ragazzino iraniano innescava vicissitudini avventurose in un flusso di eventi quotidiani, al punto che la vittoria al termine di una corsa, che aveva come premio proprio un paio delle ambite calzature (dettagli sempre pregnanti di questo regista che o è un feticista o è un ex ciabattino), veniva vissuta dal protagonista con evidente sconcerto: alla felicità di essere riuscito a riparare alla mancanza faceva da contraltare l’immagine dei suoi piedi tumefatti e affaticati, messi in refrigerio presso la domestica vasca dei pesci. In Baran proprio l’inquadratura finale dell’orma lasciata dalla calzatura della ragazza, ormai in partenza verso l’Afghanistan, riempita dall’acqua di un improvviso acquazzone, è destinata anch’essa a scomparire, per lasciare il giovane Lateef infitto in una completa solitudine, privato anche del conforto che poteva derivare dalla contemplazione di un’impronta, assunta al rango di "pars pro toto" di colei che sta sparendo dal proprio orizzonte fisico e ideale. Nonostante ciò quell’orma rimarrà impressa nel suo cuore, a testimonare la tenuta degli affetti al di là delle separazioni.
Majidi ha il coraggio di affrontare il problema degli immigrati, in una società complessa come quella iraniana, che sta vivendo in questi giorni conflitti e rivendicazioni di libertà da parte dei giovani stanchi del regime teocratico degli ayatollah, a cui si aggiungono tensioni sociali dovute a forti flussi migratori, per certi versi difficili da comprendere per noi occidentali. Gli afghani sono i paria che vivono ai margini, quelli di cui non si parla più o non si è mai parlato, fuggiti di fronte alla prospettiva di un’occupazione sovietica, cui ha fatto seguito la dittatura talebana e la guerra più recente, inferta dagli Stati Uniti per ragioni umanitarie, in realtà copertura di ben altri interessi economici, che nulla hanno a che vedere con il riportare la democrazia in quella nazione travagliata, i cui profughi si trovano a essere mal tollerati persino dai vicini iraniani, che dovrebbero sentirsi affratellati per comunanze di costumi e visioni del mondo. Da sempre gli afghani, descritti nei film iraniani (si pensi a
Delbaran di cui si è già parlato), diventano il simbolo dell’umanità derelitta, clandestina, senza identità, costretta a ricorrere a espedienti tipici del lavoro nero per poter sopravvivere in quella giungla che li sta ospitando malvolentieri. Sono gli sfigati per eccellenza, ultimi anelli di una catena di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, che sembra non lasciar spazio alla compassione, benché il film cerchi di dimostrare proprio il rovescio della medaglia.
Un cartello in nero, giustapposto ai titoli di testa, definisce il contesto in cui si situa la vicenda narrata e al contempo chiarisce l’entità dello sradicamento avvertito dai giovani profughi: non cittadini in Iran, per quanto vi siano nati, non registrati in Afghanistan, una patria che non hanno mai conosciuto.
"Nel 1979 l’Unione Sovietica invase l’Afghanistan. Quando le truppe Sovietiche si ritirarono, 10 anni dopo, il paese era diventato il fantasma di quello che era una volta.
La devastazione, congiunta alla guerra civile che seguì il brutale dominio del regime Talebano, e tre anni di siccità spinsero milioni di Afghani a lasciare il proprio paese.
Le Nazioni Unite stimano che l’Iran attualmente ospiti un milione e mezzo di profughi Afghani. La maggior parte della giovane generazione è nata in Iran, e non è mai stata in patria".

Nel corso di questi lunghi anni i milioni di afghani illegalmente affluiti in Iran si sono sobbarcati i lavori più duri e faticosi che si possano immaginare, senza contare il numero di quelli morti per incidenti sul lavoro o quelli scomparsi in circostanze misteriose, che i giornali e la televisione non si peritano di nominare.

Il cantiere fumoso e fatiscente

Il microcosmo descritto da Majidi trova il suo centro in un cantiere fatiscente, fatto di edifici bui e labirintici (dove non si capisce mai quali muri vengano costruiti e quali distrutti), spesso avvolti dalla nebbia o dai vapori, talvolta ripresi dall’esterno, quando intervengono i fiocchi di neve a isolarli dal resto del mondo. Qui lavora, in qualità di vivandiere, il giovane Lateef, un campagnolo iraniano, un po’ scansafatiche, che alterna momenti di allegria ad atteggiamenti da attaccabrighe. È stato affidato dal padre al capocantiere Memar, che trattiene la sua paga non solo per evitare che il ragazzo la possa sperperare, ma soprattutto per poterlo sfruttare e ricattare di continuo, con toni paternalistici. Lo vediamo sempre in movimento, su e giù per le scale, tra un’impalcatura e l’altra dei ponteggi precari con in mano il vassoio su cui sono appoggiati alla bell’e meglio i bicchieri di tè fumante, oppure di corsa verso lo spaccio, dove, solo dopo aver mostrato il proprio documento di identità, gli verranno consegnati i viveri necessari per sfamare i lavoratori del cantiere, alle scorte finisce per aggiungere un leccalecca, che succhia voluttuosamente, con un’espressione di sfida ribalda e al contempo birichina, tipica di chi sa fregare ingenuamente la fiducia degli altri, gli adulti.

La comunità afghana

A lavorare nel cantiere sono soprattutto gli afghani clandestini, costretti a nascondersi o a scappare ogni qualvolta faccia irruzione l’ispettore del ministero del lavoro: a una vita di stenti si aggiunge così la paura quotidiana di essere colti sul fatto, l’angoscia di essere sorpresi, mentre si sta "abusivamente" morendo di fatica per sbarcare il lunario. Un giorno un muratore afghano cade da un’impalcatura, ferendosi gravemente a un piede: subito l’incidente viene occultato grazie alla forzata omertà a cui vengono costretti i testimoni. Al lavoratore non viene nemmeno corrisposto un indennizzo, un misero pugno di soldi, che avrebbe almeno messo a tacere la coscienza di chi lo stava sfruttando. Qualche giorno dopo si presenta al cantiere, accompagnato dallo zio, il figlio del ferito, Rahmat, un giovane minuto e tutto infagottato, che spera di potersi sostituire al padre per provvedere al mantenimento della famiglia. Memar decide di metterlo alla prova, ma il ragazzino è troppo gracile per poter portare i pesanti sacchi di calce su e giù per le scale, così gli viene affidata la mansione di Lateef: fare il vivandiere. Quest’ultimo per punizione, in quanto testa calda pronta ad acciuffarsi per un nonnulla, viene declassato e sarà costretto a faticare al posto di Rahmat.

Scambi di lavoro su e giù per le scale

Visibilmente contrariato, Lateef cerca di vendicarsi come può, ossia ricorrendo a stratagemmi infantili (di vedetta sul tetto spia l’arrivo del ragazzo e di suo zio per imbrattarli di calce, fatta scivolare volutamente, oppure rifiuta con sgarbo il tè che gli viene gentilmente offerto, gettando il contenuto del bicchiere nel bitume fumante ...), finché non scopre che Rahmat è in realtà una fanciulla travestita, una splendida Baran, di cui si innamora perdutamente. L’amore trasfigura anche la narrazione filmica: fin qui giocata su antagonismi, conflitti, rimarcati anche dai tagli dell’inquadratura, da una parte si collocava il ragazzo, dall’altra la ragazza, in mezzo il capocantiere. Dal momento in cui il giovane si innamora, la ragazza quasi sparisce dall’inquadratura, diventa una sorta di figura angelicata, spiata o inseguita di continuo, perché sempre più evanescente, fino a sparire del tutto, coperta dal burka (non avremo il piacere di sentire neanche la sua voce, perché non dirà una sola battuta per tutto il film, limitandosi a recitare con i gesti e la forza del suo sguardo penetrante).
Dalla rivelazione in poi il film cambia infatti registro: da indagine sociale, attenta a descrivere le fatiscenti condizioni di lavoro di un gruppo di immigrati, si trasforma in odissea sentimentale di un giovane, che, in segreto e senza mai dichiararsi, moltiplica i suoi sforzi per aiutare Baran. Dapprima si industria a coprire la ragazza, per timore che la sua vera identità venga scoperta, in seguito l’aiuta a scappare prima che venga arrestata dagli ispettori, come non bastasse si inventa uno stratagemma per far pervenire alla famiglia i suoi risparmi, infine vende persino il suo documento di identità, l’unico che gli consentiva di differenziarsi dal destino dei clandestini. Quest’ultimo suo gesto, se da un lato può essere colto come totale abbandono alla condizione dell’amata per uniformarsi a lei, dall’altro diventa metafora della perdita della propria identità: il nuovo sentimento avvertito scompagina il suo essere e non gli consente di ricorrere a punti di riferimento legittimati dalla sua tradizione. Queste spogliazioni finiscono per liberarlo anche dai pregiudizi, legati al possesso e alla proprietà (regala infatti tutti i suoi soldi) e all’appartenenza a una società che gli riconosceva il diritto alla cittadinanza, simboleggiato dalla carta di identità. Il film non spiega perché sia così importante separarsi dal proprio documento di identità, forse in Iran non rilasciano duplicati in caso di perdita e di smarrimento, casuale o intenzionale.

Lo svelamento delle identità

Interessante come viene documentato nel film il progressivo svelamento della natura femminile: quando Lateef, arrabbiato per il cambio di mansione, mette a soqquadro l'angolo adibito a cucina e ripostiglio, subito la ragazza non si lascia intimorire, rassetta i cocci del vasellame, riordina gli arnesi sulle mensole, appende una tenda colorata a mo’ di porta, per separare il suo regno dal resto del cantiere, ma soprattutto la scorgiamo intenta a lustrare una sorta di superficie riflettente (lo specchio che consentirà al protagonista di scoprire la vera identità di Baran, mentre si sta pettinando i lunghi capelli, per un attimo liberati dal fastidioso copricapo maschile) o ad appoggiare una piantina, per ingentilire un ambiente ostile, che è tale sia all’interno del cantiere, sia all’esterno in tutti gli altri lavori che le verranno prospettati. Se da un lato il regista accoglie e aderisce a uno stereotipo diffuso, che vede la donna regina incontrastata della casa, da cui non può uscire e di cui si deve occupare quotidianamente, dall’altro sottolinea l’umanità di questo lavoro: non solo è adatto a lei per costituzione fisica e per tradizione, ma di certo è di gran lunga meno faticoso rispetto al trasportare sacchi o massi, che la vedono impegnata in altre inquadrature. Il dettaglio della piantina e la superficie, seppur semi-opaca, dello specchio, portano una nota di colore al film, finora giocato in penombra o in spazi alquanto bui e fumosi.
L’uso del dettaglio è una cifra sintattica dei film di Majidi: in Children of Heaven insisteva sulla callosità e sulla stoffa del grembiule del calzolaio, mentre il movimento dell’ago intesseva una storia di dignitosa povertà e delicati sentimenti infantili, come l’insistenza sull’inquadratura iniziale delle scarpe finiva per trasformarle in allegoria di tutto il film. In Baran sono numerosi i dettagli che mostrano oggetti-affezione, capaci di rappresentare o racchiudere un’emozione: il fermacapelli, smarrito dalla ragazza, finisce con il decorare come un gioiello il cappello di Lateef, la scarpa, imprigionata nel fango e prontamente calzata dalla giovane con il suo aiuto, lascia invece un’impronta, indelebile solo nel cuore del ragazzo.

Riti d'amore

Tutta la storia viene narrata in numerosi e brevissimi quadri (alcuni anche tragi-comici); le riprese dedicate alla ricerca della giovane conferiscono molto brio al racconto perché mostrano Lateef impegnato ad arrancare tra stradine di quartieri sconosciuti. Ma una volta sbrigata la pratica della trama, il regista sembra abbandonarsi allo stato d'animo del ragazzino, allora indugia nel ripresentare una stessa inquadratura, cambiando solo i personaggi: laddove avevamo visto Baran intenta a nutrire i piccioni con le briciole avanzate dalla mensa del cantiere, ritroviamo qualche sequenza dopo Lateef a ripetere i medesimi gesti, non solo per continuare l'abitudine dell'amata, ma per poterla, così facendo, amare in sua assenza.
Spezzoni di questo genere, che consentono una pausa del racconto principale e aprono uno squarcio sulla dimensione affettiva del giovane, potrebbero essere eliminati, ma sono in realtà il succo del film: un tassello utile anche per comporre l'immagine di un Iran preservato dalla corruzione dei "valori" occidentali e ancora pervaso da emozioni semplici, in cui possono sbocciare impensate solidarietà, gesti generosi e amori impossibili.

Baran e Lateef
a cura di
Paola Tarino