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La felicità non costa niente
Anno: 2003
Regista: Mimmo Calopresti;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 04-02-2003


Calopresti - La felicità non costa niente

L'autoterapia come fuga dal sistema...

... perdita di identità...
... e nuovo cominciamento sulle rovine.

Avevamo usato queste frasi a commento del film di Kaurismaki; valgono anche per questo film di Mimmo, per nulla poetico o visionario, come quello del finlandese; ma che prende spunto da presupposti simili, resituendoli su un altro registro, più sentenzioso e intimo, ma a tratti evidentemente teso a cercare un riscatto personale. Il valore delle due pellicole no nè equiparabile, ma è interessante vedere come definizioni simili producano fil così diversi.

E questa catarsi si insinua intertestualmente, soprattutto per un torinese, antico conoscente del Mimmo rivoluzionario: il mondo che gli va stretto è quello che per continuare nel suo lavoro (che gli riesce bene nella strutturazione della sceneggiatura e nella scelta dell'inquadratura, meno quando deve impegnarsi a recitare) è costretto a frequentare quei borghesi, obiettivo della sua censura al party. Duplicazione della sua insofferenza, autentica; che cerca sollievo in fughe dalla capitale: un ritornello che ripete spesso il regista è quanto si sente a casa quando è a Torino, quanto sia una costrizione, un tormento la vita in quell'ambiente, nonostante la città eterna gli piaccia, e si vede da come la inquadra nelle corse sui colli, dalle terrazze, quasi con un occhio estetizzante.
Ma forse queste "cartoline" (anche quelle torinesi in piazza Vittorio o sul Po, o dal taxi in via Po e via Roma) colpiscono maggiormente perché il resto del film è rinchiuso tra pareti - come il protagonista - oppure concentrato nello spazio della inquadratura messo a fuoco, che non è quasi mai tutto il quadro, come a voler "focalizzare" l'attenzione su un problema che altrimenti si farebbe più sfuggente, una pratica questa che si fa più assillante quando è Gianni in campo: l'operaio morto, la causa del suo disagio, o meglio il fattore scatenante che gli fa prendere coscienza della condizione di infelicità in cui versa la vita arrembante di uno che ha come destino "nascere rivoluzionario e finire reazionario" (davanti al quadro di Balla che omaggia la Marcia su Roma). Un commento alla nostra generazione che sembra una effige per la pietra tombale messa su molti persi nelle pieghe della velocizzazione dell'esistenza. Quella da cui inizia il percorso a ritroso della bella struttura di Calopresti.

L'altra bella scelta è quella di utilizzare voci off che narrano il loro punto di vista restituendo a tutto tondo la figura di Sergio: da lì traspare l'incapacità di capire l'improvvisa impossibilità di sopportare l'ipocrisia o il cinismo («in entrambi i casi molto stronzi») di chi prende la parola su tutto perché è ricco e se lo può permettere. Questo consegnarsi il testimone della ricostruzione dell'improvviso botto, che rivoluziona la vita dell'architetto di successo: lo etichettano pure con parole che consentano di rendere meno dirompente la scelta: "ipertensione". Ma è Mimmo/Sergio stesso che rifiuta di farsi incasellare e ribaltare sul sistema di certezze il motivo della sua richiesta di scendere dal mondo: «Correvo perché mi annoiavo», una scelta di onnipotenza stroncata, non da Dio (esilarante il colloquio con il crocefisso concluso spazzando i dubbi che ci fosse una involuzione confessionale), ma dalla coscienza. Coscienza di aver ucciso un uomo, di non essere felice, di gettare la vita senza cogliere l'essenza, l'amore. Il gusto di discutere con i muratori del cantiere, con i quali vorrebbe aprire la biblioteca di cantiere per continuare a discutere di "Diritto a essere felici".

Il percorso è ben descritto - peccato per la recitazione - proprio a cominciare dalla noia, che è privilegio per pochi. Quelli che fungono da coro, che non si capacita e anche ricostruendo a posteriori in questa doppia traccia - a ritroso nelle ricostruzioni, e a partire dai successivi interventi, in una progressione cronologica che descrive i successivi stadi della autoriappropriazione della dimensione umana dell'esistenza - non arrivano a capire l'abisso di disperazione spalancato dalla vacuità di quella vita piena di tutto e soddisfatta di niente per la velocità di fruizione imposta dal gioco pena l'esclusione (o l'autoesclusione), che probabilmente Mimmo ha realmente esperito e da cui si va liberando nei successivi incontri che la struttura della sceneggiatura gli spalanca, fino al disvelamento del suo malessere con la spiegazione di quella figura, Gianni, l'operaio morto per colpa sua, che offre il destro per letture filosofiche-popolari della esistenza («Lei non è solo: ha i libri, la musica i pensieri») contro la sentenziosità da vate di Sergio: "La solitudine è un castigo". Questo conduce a una deriva didattica e supponente del testo, come se si volesse dare la ricetta per imporre il proprio diritto individuale alla felicità, ma stranamente non è fastidioso perché proposto con umiltà in una pacata disamina in fieri, che riempie l'itinerario di quell'anima in pena, che dall'incidente e dall'apparizione di Gianni ha imparato a non imbavagliare una sincerità imbarazzante; a cominciare dal fascismo macho del vicino che è solo la parte più rozza (legaiola potrebbe essere in una metafora politica) della violenza che pretende di incasellare e pervadere l'intera esistenza. Quella della moglie, remissiva ma incapace di comprendere, quella del socio Francesco («Brutta persona», perché insincera, un'ossessione che forse riesce a sbloccarlo).

E si ha per tutto il film la sensazione di trovarsi all'interno di un "viaggio" a tema, con un preciso disegno metaforico, costituito da tappe di una via crucis laica volta a scoprire la strada verso la felicità: ce ne sarebbe a sufficienza per inorridire, da chiedersi: nientemeno e con quale autorità? Invece il percorso si dipana umile, si vede che Mimmo brancola nel buio, senza certezze o ricette, semplicemente non gli va più di adeguarsi a ritmi di vita imposti senza che si ottenga una ricompensa in termini di felicità. Questo percorso s'inizia non a caso nel pianto in solitudine, prosegue con le botte dell'iracondo vicino, s'impantana nel rapporto psicanalitico, prima di trovare uno spiraglio nel confronto con se stesso: Gianni è proiezione della sua coscienza, ma soprattutto è emanazione delle sue radici; né più, nè meno quel ballatoio che è proprio materializzazione della vita di Calopresti, figlio di operaio, a Torino. Ed è bello lo sguardo di Servillo/Gianni, canzonatorio ma determinato, quando dice che lui «Alla mensa del padrone non ci mangia». Probabilmente Mimmo stesso si sente trasportato ormai lontano da quel mondo che lo ha partorito e ne sente il pericolo di rimanere tagliato fuori dalla sua reale fonte di ispirazione, quanto il Sergio da lui impersonato è in un guado: non può continuare la vita arrembante, perché per lui non ha più senso e non riesce a recuperarne le tracce in nulla.

Luci e ombre, si diceva: gli aspetti positivi derivano da quella congerie di camei offerti da personaggi diversi, Francesca Neri, conturbante seduzione disperata, da accudire come una bambina ferita in una dominante azzurrina che contrasta con le altre situazioni cromatiche, per poi scoprire che è l'ennesima menzogna, in una pletora di casi di sepolcri imbiancati, di ipocrisie che scorrono sui volti (quello di Valeria Bruni Tedeschi, particolarmente inespressivo, come sempre, è così preciso nel restituire la vacuità del mondo descritto), di situazioni recitate allo spasimo, al punto da convincersi che proprio quella sia la realtà comune da accettare; dall'altro lato, sempre in positivo, si possono annoverare i momenti di confronto con la pacata saggezza di Gianni, che interviene proprio con l'incidente, pietra angolare, giro di boa, motivo scatenante della rimeditazione su un'esistenza inutilmente frenetica e incapace di dare felicità, oltre a goderla. Invece le componenti meno felici sono da rintracciare nell'incapacità di valorizzare le battute da parte del protagonista, che ha il fisico giusto e la mimica opportuna, ma quando porge le battute accentua l'impressione di saccente oracolo; stranamente questo non avviene invece con le voci fuori campo che avviano la ricostruzione a posteriori. Scontata la figura della psicanalista - luogo ormai retorico e costante nella cinematografia di Calopresti - utile solo come prolessi dell'incontro con Francesca Neri. Didattiche anche le sezioni che sarebbero invece state nelle corde del Mimmo documentarista: ricostruire quel discorso filosofico sui trabatelli e le impalcature del cantiere diventa faticoso e inconcludente. Inoltre non dimostra nulla: non è un architetto illuminato o un compagno, e nemmeno è una figura che potrebbe trovare contatti con i sottoposti: infatti non li può avere, e questo è un altro motivo di disagio, una nuova sconfitta che non trova nel film una adeguata analisi.

L'impressione è quella di un film di passaggio, ottimo in questo senso, ma un po' insoddisfacente, perché sembra un temino sulla felilcità. Si riscontrano motivi che possono salvarlo, ma sono sporadici e affidati alla fortuna del momento o all'occhio davvero felice del reparto fotografico che coglie alcune intuizioni per azzeccare l'inquadratura che risultano sicuramente più espressive di certa recitazione approssimativa. Peccato perché il flusso verso l'abisso e la conseguente risalita rigenerante, pur essendo un percorso non nuovo, ha cadenze che stanno nei tempi opportuni e i raccordi sono precisi. Peccato anche che l'idea della pastasciutta finale si perda nel bisogno di offrirsi un appiglio di speranza, che sarà anche parte della terapia, ma poteva stare fuori dal film.

Ultima notazione: relativa al corpo. Fin dalla prima inquadratura si evidenzia la centralità del corpo seminudo, picchiato e poi in esercizio fisico, unica residua forma espressiva del transfuga dal mondo, in seguito all'incidente che lo segna nel corpo, ma ancora di più nello spirito, dimostrando che quanto più è emaciato tanto più è ferito nell'anima. Allo stesso modo Sara (la Neri) fasciata in un vestito che segna le curve generose nell'attimo di disperata determinazione suicida e, dopo la scopata, inguainata in vestiti maschili, fino alla apparizione nel gioco menzognero della famiglia, ipocrita nell'apparenza ancor prima che nella azione, come le altre donne contro cui si scaglia l'intolleranza di Sergio, stufo delle menzogne borghesi; sono corpi senza desiderio, nonostante i molti amanti, validi solo per rappresentanza. Di contro i corpi al gelo dei muratori o il suo denudato sul letto della sala operatoria sono macchine celibi desideranti alla ricerca di un motivo per soddisfare il bisogno di felicità.

La felicità non costa niente
Italia, 2002, 112 min.
regia: Mimmo Calopresti; sceneggiatura: Mimmo Calopresti, Francesco Bruni, Heidrun Schleef; fotografia: Arnaldo Catinari; scenografia: Alessandro Marrazzo; Costumi: Silvia Nebiolo; musica: Franco Piersanti; montaggio: Massimo Fiocchi. Cast: Sara: Francesca Neri, Sergio: Mimmo Calopresti, Francesco: Vincent Perez, Claudia: Fabrizia Sacchi, Gianni: Peppe Servillo. Produzione: Bianca film, Europa corp, Ventura film; distribuzione Lucky Red.