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Pinocchio Anno: 2002 Regista: Roberto Benigni; Autore Recensione: p.t. Provenienza: Italia; Data inserimento nel database: 26-10-2002
Pinocchio di Benigni
PINOCCHIO
Regia Roberto Benigni
Con Roberto Benigni, Nicoletta Braschi, Carlo
Giuffré, Beppe Barra,
Kim Rossi Stuart, I Fichi d'India, Franco Javarone
Italia, 2002, Produzione Melampo, Distribuzione Medusa
"Pinocchio si voltò a guardarlo; e dopo che l'ebbe guardato un
poco, disse dentro di sé con grandissima compiacenza: - Com'ero buffo quand'ero un
burattino! e come ora son contento di essere diventato un ragazzino per bene!
", così finiva il libro di Carlo Lorenzini, nome d'arte Carlo Collodi, Le
avventure di Pinocchio. Storia di un burattino (apparso sul Giornale dei bambini
nel 1880 e in volume nel 1883, quando l'autore era quasi sessantenne: l'età giusta per
scrivere libri dedicati all'infanzia). Diversamente si conclude il film Pinocchio
di Roberto Benigni, che, pur recitando la medesima frase di fronte a un compiaciuto
Mastro Geppetto (Carlo Giuffré che sembra la fotocopia di Pappagone, macchietta
televisiva di Peppino De Filippo, di certo per via del parrucchino color polenta), ne
approfitta per prendere posizione e schierarsi dalla parte del burattino, ormai ridotto a
ombra e forse per questo capace di sganciarsi dal corpo reale in cui si è trasformato,
per diventare finalmente se stesso, superare la schizofrenia latente e andarsene libero a
inseguire le farfalle turchine del desiderio e dell'edonismo infantile.
Sentendo Benigni recitare quella frase si ha davvero
l'impressione di assistere alla pronuncia di una bugia, l'unica, autentica, nuova nel suo
genere, perché senza gambe corte o naso lungo
Le altre erano inconsapevoli, uscivano dal profondo di una coscienza candida e ingenua:
non a caso la Fatina era disponibile a perdonarle tutte, incondizionatamente; quest'ultima
invece, nella sua amarezza tangibile ("
dopo che l'ebbe guardato un poco"
coincide infatti con l'inquadratura del corpo inanimato, disarticolato del burattino,
scompostamente accasciato su una sedia con la testa a penzoloni), diventa la bugia per
eccellenza.
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Al Pinocchio di Benigni non interessa
affatto diventare un ragazzino "per bene", inquadrato nei ranghi, pronto a
studiare e a trovare un impiego (magari come segretario di qualche prefettura come
Collodi), non ha voglia di rinunciare al divertimento di una vita anarchica e selvaggia:
il passaggio dal principio di piacere a quello di realtà non scatta nella pellicola, per
il resto fedele alla trama del libro.
Cercare l'avvenuta o meno fedeltà del film rispetto al testo è una ricerca peregrina e
persino fuorviante: la storia è così nota e presente nell'immaginario collettivo che
viene naturale intercettare conferme rispetto ai ricordi che ognuno ha conservato di
quella lettura o delle precedenti trasposizioni cinematografiche: il film d'animazione di
Walt Disney del 1940, l'opera teatrale di Carmelo Bene del 1961, la riduzione per il piccolo schermo di Luigi Comencini del 1972.
Quando scatta il meccanismo del confronto il film di Benigni perde in
originalità per alcuni versi, ma al contempo acquista significati imprevisti, perché
alcune sequenze sono costruite così bene, che finiscono per coincidere con le
prefigurazioni sognate da bambini, leggendo o ascoltando la storia.
Nel mio caso il punto di attrazione è scattato di fronte all'apparizione di Mangiafuoco
(un gigante barbuto interpretato da Franco Javarone): la sua comparsa da mozzafiato di
fronte a quel popolo di piccole marionette era già conservata nella mia memoria
esattamente così come è stata rappresentata nel film. Mi sono detta: "Non solo
l'ho già letta questa scena, ma mi sembra di averla già vista tale e quale":
curiosa coincidenza (di certo frutto della mia semantizzazione del testo ormai ridotto ad
un palinsesto) che mi ha confermato come la fedeltà ricercata nel film di Benigni non
risieda tanto nell'illustrazione pedissequa degli episodi scritti a puntate da Lorenzini,
bensì nella restituzione di un'aura, fatta di ricordi e rievocazioni, sepolti da anni e
finalmente tornati a galla grazie al fascino incantatorio di un'inquadratura, quella sola,
unica, esatta, magica
Molti adulti saranno allora grati al film perché ritroveranno sparse qua
e là le trasposizioni oniriche maturate da bambini in qualità di "lector in
fabula"; altri invece, magari per antipatia recondita nei confronti del libro di
Collodi, saranno riconoscenti soltanto alle invenzioni, pronti a gustarsi le novità
introdotte rispetto al testo originale. Chi sceglie quest'ultima ipotesi apprezzerà
senz'altro i primi minuti del film: il prologo che fa da cornice alla fiaba con l'arrivo
di un cocchio trainato da una miriade di topini bianchi, da cui fuoriesce la fatina
(interpretata da Nicoletta Braschi un po' ingessata nel ruolo e dalle espressioni
stereotipate), che, accompagnata dal suo fedele cocchiere Medoro, è intenta ad
accarezzare una farfalla, che avrà il ruolo di aiutante magica nel prosieguo della
storia. I due inizieranno a disquisire sul senso dell'esistenza, a partire dalla
precarietà rappresentata dalla vita della farfalla, bruco destinato a vivere e ad
assaporare lo splendore del battito d'ali per un giorno soltanto, per concordare
sull'inesistenza del tempo, come durata cronologica, misurabile nel percorso che dalla
nascita conduce alla morte, inaugurando così, in maniera originale, l'ingresso del
cocchio e dello spettatore nel tempo e nello spazio della narrazione fiabesca, impregnata
di accadimenti che si potranno gustare - da quel momento in poi - solo affidandosi al
ritmo del cuore e dell'immaginazione.
Il buio del percorso, grazie alla magia della fata, si trasforma man mano
in luce mattutina, capace di rischiarare la frenesia che invade gli abitanti di un borgo
ottocentesco, messo improvvisamente a soqquadro dal dinamico rotolare frenetico di un
pezzo di legno: un tronco sfiorato dalle ali della farfalla come fossero bacchette
magiche, catapultato da un carro e inquadrato nella sua folle corsa tra le stradine del
villaggio.
Quel tronco animato ha il pregio di contenere l'anima del futuro burattino, i suoi
movimenti sembrano orchestrati dall'apparato professionale del guitto Begnini. In quel pezzo di legno ci sta
insomma tutta la carica dinamica che di solito sa generare l'attore nelle sue performance e
lo spettatore accorto finisce con l'apprezzare quest'anticipazione, sorridendo
compiaciuto. I guai provocati dal suo passaggio vulcanico sono inenarrabili, ma resta
certa una consapevolezza: i gendarmi ricevono in faccia una quantità tale di succo di
pomodoro, che si finisce per perderne il conto, ridotti a maschere impietose nei loro vani
tentativi di acciuffare quel pezzo di legno, ribelle, monello e soprattutto perdigiorno.
Benigni è leggero e veloce come un
acrobata, affida la sua natura puerile alla carica vitale delle sue energiche esplosioni
fisiche che, se da un lato fanno un po' rimpiangere l'assenza di mosse degne di un
burattino, dall'altro acquisiscono forza grazie all'esatta combinazione di espressioni e
smorfie capaci di comunicare i suoi stati d'animo, altalenanti tra lo stupore e la
meraviglia tipica dei bambini, la monelleria compiaciuta, il suo essere ingenuamente citrullo e credulone, la
pulsione di mantenere fede alle promesse fatte alla fatina e al contempo il desiderio di
assecondare la sua voglia di libertà e il gusto per l'avventura, per non dover rinunciare
al piacere e alla golosità. Spiace invece sentirlo recitare con quella vocetta fasulla e
un po' melensa (che aveva già utilizzato nel film La voce della luna di Federico
Fellini): la stessa che adoperano spesso certi adulti quando si devono rivolgere ai
bambini.
Se il Lucignolo recitato da Kim Rossi Stuart
rende giustizia al personaggio per la sua simpatica allergia nei confronti delle
costrizioni rappresentate dagli alti valori del dovere e dell'integrità morale, ai quali
sa contrapporre una trascinante gioia nella libertà di gustare un lecca-lecca al
mandarino, giubilando nel paese dei balocchi, ormai ridotto a una discoteca o a un gran
varietà televisivo all'insegna del consumismo, non altrettanto si può dire per gli
episodi che vedono in scena il Gatto e la Volpe, recitati da Max Cavallari e Bruno Arena
(I Fichi d'India), che fanno provare nostalgia per la superba interpretazione offerta da
Ciccio Ingrassia e Franco Franchi nel film di Comencini. Questi ultimi avevano saputo
restituire l'astuzia, lo spirito ladrone, l'abilità nel fregare l'ingenuità di
Pinocchio, con estrema efficacia, prendendo al contempo in giro se stessi per la loro fifa
nera, quando cadono vittime della magia della fatina.
Un'amica, che frequentava la scuola
elementare quando la televisione italiana mandò in onda lo sceneggiato televisivo di
Luigi Comencini, ha pensato di farmi cosa gradita imprestandomi il suo libro di Collodi
(conservato come una reliquia, vissuto e usato al punto tale che il dorso della copertina,
tenuto insieme da lunghi pezzi di nastro adesivo ormai trentennali, si è improvvisamente
scollato, quando ho cercato di introdurre il volume sul piano di lavoro dello scanner,
denunciando così la sua allergia per la tecnologia), illustrato dalle foto di scena
tratte da quel film. L'introduzione, scritta dal regista, mi ha offerto non solo la chiave
di volta per comprendere la sua operazione condotta nei confronti del libro di Collodi,
giustificando quella successiva di Benigni, ma anche l'occasione per invitare gli
spettatori, soprattutto i bambini, a costruirsi il "proprio" Pinocchio, sia
leggendo il testo, che assistendo alla proiezione del film. Verrebbe inoltre da
consigliare ai piccoli o a tutti quelli che non l'avessero mai fatto (ma questo lo dice
solo l'insegnante che abita in me
) di leggere prima il testo per non farsi
condizionare troppo dalla versione offerta da Benigni, che potrebbe senz'altro influenzare
il loro immaginario, privandoli del diritto di inventarsi il burattino o il bambino
desiderato, di schierarsi dalla parte dei personaggi amati o di provare insofferenza nei
confronti di quelli antipatici. A chi capiterà, come a me, di non sopportare per esempio
il "grillo parlante", ritenuto troppo noioso, saccente e petulante nei suoi
consigli, allora proverà gusto e soddisfazione maggiori, vedendo Benigni brandire più
volte un martello per cercare di appiattirlo e di condurlo al meritato silenzio eterno
"Durante
tutto il racconto di Collodi, il burattino, fatto di legno dal falegname Geppetto, sogna
di diventare un bambino in carne e ossa, ma la fata gli dice che questo potrà accadere
solo quando sarà diventato un burattino "per bene", quando insomma avrà smesso
di fare tante monellerie e si sarà messo in testa che i bambini debbono ubbidire ai
grandi.
Avrei potuto, nel film, ripetere la stessa cosa. Ma ci sono due ragioni per le quali ho
cambiato un po' la storia. La prima è che, quando lessi il libro la prima volta, tanti
anni fa, mi ricordo che rimasi molto male alla fine, perché mi era più simpatico il
burattino impertinente creato da Geppetto, del bambino per bene voluto dalla fata. La
seconda ragione è che sarebbe stato difficile far fare a un burattino tutte le azioni che
Collodi attribuisce al suo Pinocchio.
Così ho capovolto la situazione. Il succo, come vedrete, è però sempre lo stesso.
Geppetto si fa un burattino di legno, come nel libro, ma la fata lo trasforma subito in un
bambino in carne ed ossa, facendosi promettere però che sarà un bambino "per
bene", ubbidiente e studioso, bastone della vecchiaia del suo genitore.
Siccome il bambino, che ha conservato il carattere vivace e ribelle del burattino, subito
ne combina di tutti i colori, la fata lo fa tornare di legno, per punirlo. Ma per poco,
perché di nuovo lui promette che sarà buono e la fata lo fa ridiventare bambino, finché
è costretta a punirlo di nuovo; e così per ben tre volte; poi, come nel libro, lo fa
addirittura diventare somaro. Almeno credo che la trasformazione sia opera della fata:
Collodi non lo precisa [
].
Con questo piccolo stratagemma ho potuto usare un bambino che non è noioso e saccente
come quello che appare alla fine del libro, ma vivo, arrogante e simpatico come il
Pinocchio-burattino; e ho conservata intatta la sua lotta con la fata, che vuole domarlo,
per farne un "ragazzino per bene", mentre lui vuole semplicemente essere un
ragazzino senza aggettivi.
Un altro cambiamento riguarda gli animali. La lumaca, il giudice-cane, il gatto e la volpe
nel film sono attori, sono uomini; altri invece, come il grillo, la lucciola, il tonno, il
pescecane sono rimasti animali. Perché?
Perché così me li sono immaginati leggendo il libro. M'è sembrato che Collodi certi
animali li vedesse veramente come tali; e che altri fossero chiamati animali solo per
definirne meglio il carattere, ma fossero uomini, uomini che si incontrano veramente nella
vita.
Avevo o non avevo il diritto di prendermi questa libertà?
Chi scrive un libro, chi sceglie cioè la parola per raccontare una storia, lascia al
lettore la libertà di figurarsi fatti e personaggi come la sua fantasia, stimolata dal
testo, se li immagina.
Anch'io sono un lettore di Collodi e, accingendomi a tradurre in immagini il suo testo,
non potevo che affidarmi a quello che il libro mi aveva suggerito, non oggi, ma tanti anni
fa, quando da bambino, lo lessi e lo rilessi avidamente.
Allora, per esempio, provavo simpatia e ammirazione non solo per Pinocchio ma anche per
Lucignolo; e così, nel film, ho fatto un Lucignolo simpaticissimo. Provavo meno
ammirazione per la fata, noiosa e pedante, e così l'ho rappresentata; mi faceva tenerezza
Geppetto, e questo affetto spero sia rimasto anche nel film.
Ho realizzato insomma un "mio" Pinocchio, certamente diverso da altri film già
fatti prima, così come se ne possono fare molti altri ancora, sempre nuovi, dando del
libro altre interpretazioni. E questo proprio perché è un libro molto bello, un libro
ricco di suggestioni, un libro che non invecchia mai".
(Luigi Comencini, introduzione a Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi, Edizioni
Paoline, Torino 1972, pp. 8-9)
Benigni
sembra aver raccolto le raccomandazioni di Comencini, ma non sarà l'ultimo della serie,
perché, si sa, ogni lettore/spettatore ha il suo Pinocchio e ci tiene a
conservarlo tale e quale, per mantenere integra l'immagine della propria infanzia.
Per questo, a volte, si indispettisce persino e si agita, quando qualcuno cerca di
mostrargliene altre facce, nascoste o lasciate in "ombra"
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