LA LOCANDA DELLA FELICITÀ (Xingfu Shiguang)
Regia Zhang Yimou
Con Zhao Benshan, Dong Jie, Dong Lihua, Repubblica Popolare Cinese, 2002, 106', Fox
Se da un lato non sorprende trovare Zhang Yimou alle prese con una
favoletta apologo dai risvolti moraleggianti ambientata in una Cina contemporanea (Non uno di
meno aveva già
inaugurato questo filone), dall'altro non risulta fuorviante la scelta di affidare a
una giovane, stavolta persino non vedente, il compito di incarnare il destino di una
nazione, colta nel suo fragile e precario equilibrio, barcollante tra il desiderio di
tributare rispetto alla tradizione e al contempo ammettere che la deriva modernizzante,
rappresentata dall'apertura al neoliberismo selvaggio, sta cominciando a produrre i
suoi esiti indesiderati, proliferando una genia di soggetti gretti, cinici, ottusi, obesi
(soprattutto nel corpo, ma anche nel cuore e nella mente), capaci soltanto di pensare al
loro tornaconto personale, mostri senza scrupoli nel calpestare la fantasiosa ingeniosità
degli ormai pochi che si industriano, pur reclusi nei ruoli che sono stati loro assegnati
dal sistema, a credere ancora nella solidarietà e nel mutuo (misero e inefficace)
soccorso, perché il fine perseguito ha dalla sua almeno il vantaggio di giustificare i
mezzucci adoperati.
Si direbbe che proprio in questo deambulare zigzagante il corpo-Cina, nazione ridotta a
uno stato di cecità post guarigione da tumori interni, possa trovare la forza per
ascoltare e accogliere le lezioni del passato, tesaurizzandole non per inaugurare una
nuova rivoluzione culturale, ma per trovare la forza di reggersi in piedi da sola e
marciare a testa alta verso un oriente rosso, affatto glorioso, ma affidato stavolta alla
parte migliore della tradizione, quella abbandonata quando era obbligatorio fare
"tabula rasa" per concorrere all'edificazione dell'uomo nuovo, che
avrebbe retto le sorti future del disegno socialista di riconfigurazione di quel
microcosmo.
Messe da parte le ricche e sontuose
scenografie volte a mitizzare racconti di una civiltà millenaria o rurale (inscenata nel
suo penultimo lavoro La strada verso casa), Yimou immerge la sua macchina da presa
nella realtà di una città moderna, la Cina di tutti i giorni, dove la gente comune è
impegnata a sbarcare il lunario non solo per sopravvivere, ma anche per permettersi un
matrimonio decente, perché, nonostante tutto, i riti vanno salvaguardati, in quanto
finiscono per regolare i rapporti tra gli individui e fanno parte di un copione, a cui è
inimmaginabile sottrarsi, nonostante restino vivide le cicatrici rammemoranti le ferite
prodotte da anni di rieducazione culturale.
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Zhao è un uomo maturo, lavora ancora, ma è
prossimo alla pensione. È uno spiantato, non ha mai avuto fortuna in amore, desidera
accasarsi e preferirebbe trovare una compagna dal fisico asciutto, ma queste ultime non
sembrano nutrire interesse per lui. Finalmente trova una donna disponibile, seppur
cicciona e avida (stereotipo dell'individuo tronfio e cinico scaturito dal
benessere), alla quale non osa confessare la sua vera condizione, per cui finisce con il
fingersi facoltoso e capace di organizzare un matrimonio al di là delle sue possibilità.
Disperato e alla ricerca di quattrini si rivolge al suo amico del cuore, che ormai stanco
dei suoi fantasiosi piani, gliene propone uno ancor più stravagante: riattare un vecchio
autobus in disuso, collocato in un parco assiduamente frequentato da coppiette, per
trasformarlo in una "locanda della felicità", una sorta di originale albergo ad
ore che sarebbe piaciuto sia a Jacques Brel e a Herbert Pagani per aggiornare il loro noto
motivetto ("Io lavoro al bar di un albergo ad ore, porto su il caffè a chi fa
l'amore ..."), che a Marco Ferreri per progettare una versione ad uso
giovanile della sua Casa del sorriso.
Il piano va a gonfie vele:
l'autobus dagli interni rossi e dai finestrini oscurati da colate di vernice
altrettanto vermiglia e inquietante soddisfa gli appetiti e la curiosità dei giovani,
desiderosi di intimità, così Zhao si trova a guadagnare e a racimolare persino i soldi
per procurarsi un bouquet di rose rosse da portare alla fidanzata (con il benestare di Ken
Loach che reclamava nel suo film Pane e rose il diritto per i lavoratori di poter
acquistare non solo il pane e il companatico, ma anche quel poco che può dare sapore e
profumo alla vita).
La donna ha comunque i suoi scheletri
nascosti nell'armadio: un figlio altrettanto obeso, vittima del consumismo più
becero e omologante, che rende cieche le pulsioni di ascolto e comprensione
dell'altro da sé, e una figliastra realmente non vedente, creatura fragile in balia
di abbandoni colpevoli e di autoritarismi sordidi, comportamenti degni della matrigna di
Cenerentola. Il ragazzo e la matrigna non si fanno scrupoli a maltrattarla e a
espropriarla della camera che le appartiene, occupandola con oggetti che risultano alieni
sia al suo tatto, sia alla tradizione cinese, di cui permane il cromatismo vivace, ma reso
artificioso tramite un campionario di plastica pop di derivazione dal gusto occidentale.
La favoletta potrebbe volgere al lieto fine con il coronamento delle nozze ambite,
ma per Zhao c'è ancora una prova da superare: trovare un lavoro per la figliastra,
abbandonata dall'ex-marito della donna, reo di essere fuggito con il malloppo
sottratto all'arpia con l'intento di fare fortuna per guadagnare la cifra
sufficiente per operare la ragazza, che continua a credere nella bontà del progetto
tramato dal padre.
Zhao chiede aiuto agli amici e ai colleghi di lavoro e da questo momento in poi
assistiamo a un film completamente diverso, viene abbandonato vieppiù il registro comico
e il personaggio evolve dalla sua maschera macchiettistica per approdare a un ben più
pregnate spessore narrativo.
Tra Zhao e la giovane scatta naturale una scintilla, una fiamma di
solidarietà che ricorda per certi versi il legame elegiaco che già Takeshi Kitano aveva
saputo intessere con il bambino alla ricerca della madre in L'estate
di Kikujiro: in questo
film un sottile filo rosso univa, solo nel corso della stagione estiva, due individui alla
deriva, il cui destino si intrecciava per caso e, dopo averlo svagato e abbandonato a
fughe degne di un Pierrot lunaire, rientrava nei ranghi di una quotidianità
ricomposta, seppur alla luce di una crescita maturata dalla reciproca frequentazione.
Zhang Yimou non si concede invece divagazioni oniriche e surreali: gioca sulla
falsificazione della realtà per compiacere i piani di un anziano "maestro", che camuffa
spazi, ambienti o sottrae oggetti per assecondare il suo proposito di convolare a nozze
sicure, però stavolta è l'altro soggetto, quello debole e agito, a giocare la parte
adulta della situazione e a dare scacco matto alla partita.
La
giovane finge di assecondare i disegni del vecchio, che la infinocchia per farle credere
di averle trovato un lavoro come massaggiatrice nella sua "locanda della
felicità" (applicazione tattile adatta ad una cieca), si diverte a osservare,
proprio lei che è orba, i marchingegni con cui gli amici di Zhao credono di fregarla,
pagandola per i suoi servizi con carta straccia, anzichè con banconote (una delle sequenze da antologia insieme all'ultima, perché il suo sorriso enigmatico dopo il controllo delle banconote false non consente allo spettatore di capirte se si è accorta o meno della sostituzione), ma si adegua e si
affeziona alle circostanze, perché comprende la loro autentica bontà d'animo
nell'orchestrare gli stratagemmi, a cui ricorrono per aiutarla a immaginare un
destino migliore. Sono buffi i tentativi di questa banda di pensionati nel prodigarsi a
inventare un albergo che non esiste, trasformando gli interni di un capannone industriale
in corridoi e stanze enormi, tappezzate di finta stoffa, dove l'andare a tentoni risulta
facile e agevole, persino per chi non è dotato di vista. La ragazza mangia la foglia,
accetta la mansione e simula di trovarsi a proprio agio in questa nuova realtà
lavorativa: in fondo spera, così facendo, di poter mettere da parte abbastanza soldi per
riunirsi al padre e potersi curare.
In realtà quando la simulazione si fa insostenibile, anche perché i soldi non sono
sufficienti a mantenere il gruppo solidale, la ragazza non ha problemi a farsi da parte, a tornare sulla strada per aprirsi a un domani diverso, certamente travagliato e
doloroso, perché ha dalla sua il coraggio di aver sperimentato il senso di fratellanza,
lo spirito di gruppo, l'appartenere a una comunità, che si fa carico dei problemi
del singolo, vivendoli come disagi comuni (Menenio Agrippa docet e permane il dubbio che il messaggio conservatore dell'apologo antico si trovi rieditato, no per le classi sociali che dovrebbero rimanere al loro posto, ma per il richiamo a una sorta di confucianesimo, un ripiegamento di fronte all'arroganza dei nuovi parvenu).
Il film si concede momenti di dolcezza squisita, semplici divagazioni che hanno il pregio
di rinvigorire i legami tra gli individui, facendo perno sul significato essenziale di
espressioni come "darsi da fare, pensare insieme, responsabilità condivisa",
offrendo siparietti divertenti riguardanti il gruppo di pensionati alle prese con la
risoluzione del problema fondamentale: come convincere una giovane, privata del senso
della vista, a restare con loro e a credere di fare un servizio utile alla collettività
... Ma le sequenze memorabili appartegono al duetto dei protagonisti: un vestito nuovo,
color rosso cardinale con disegni di fiori dai petali bianchi, sfoggiato dalla giovane,
per essere ammirato dall'anziano, che gliel'ha donato, impegnando il televisore
... ; una splendida affusolata mano femminile che palpa per strada le fattezze di
Zhao, per scoprire i tratti del suo volto e poterli imprimere nella memoria, colorando
così di immagini il buio di uno sguardo cieco ... E che dire dei tagli delle inquadrature
sui primi piani: qui si riconosce la mano del maestro della quinta generazione dei registi
cinesi; nella sua scelta dei dettagli da illuminare e di quelli da lasciare in ombra o da
immaginare fuori dai fotogrammi risiede il suo talento visivo, stavolta forse un poco
sbilanciato sul versante calligrafico, perchè l'interesse fondamentale consiste
nell'offrire volti e corpi metafora dello stato di una nazione, in balia di fermenti
e aperture incondizionate all'occidente. Corpi-immagine di un declino ineluttabile:
imprigionati nel loro vacuo benessere confortevole, oppure aperti a timidi contatti, volti
a conoscere l'altro per poterlo riconoscere nella massa, distinguerlo per primo,
quando gli occhi finalmente potranno ritrovare la facoltà di vedere.
C'è una sorta di fiducia in un futuro fondato sul nulla che fa il paio con il tentativo di mostrare una resistenza della vecchia Cina - dal punto di vista occidentale - nel forse non casualmente quasi omonimo film di Mark Robson (The Inn of the sixth Happiness del 1958) con Ingrid Bergman missionaria in Cina al tempo della invasione giapponese: zeppo di buoni sentimenti anche quel precedente con l'attrice svedese impegnata a riattare una vecchia taverna.
Il finale, avvertito come eccessivamente consolatorio e strappalacrime
durante la visione, acquista una valenza diversa, ripensandolo a posteriori. Si apprezza
la struttura scelta dal regista che riesce a rendere sincrono un sonoro parallelo: le due
lettere non arriveranno mai al loro legittimo destinatario, ma il cinema riesce nel
miracolo di recapitarle idealmente, alternando l'amico-tramite che ha l'arguzia di leggere
a voce alta quella scritta, mentre scorre quella registrata, ai due destinatari distanti
spazialmente, ma non nel montaggio cinematografico. L'impressione è che l'uno (l'anziano
ricoverato in una sala di rianimazione) riesca a percepire le parole dell'altra (la
giovane che se ne va solitaria incontro al suo destino di non vedente con bastone), a sua
volta commossa da espressioni che lo spettatore sente, attribuendovi le reazioni emotive
che lascia trasparire il volto di lei. Una sequenza costruita bene già in fase di
sceneggiatura, esaltata da un montaggio impeccabile su entrambe le bande: quella sonora,
appannaggio della cieca, e quella visiva, rivolta a noi.
Sfruttando questo stratagemma Yimou riesce nell'intento di trasformare Zhao nel vero padre
della ragazza: ruolo che gli viene già sancito dagli infermieri dell'ospedale, che
ritrovano la lettera nelle sue tasche durante il ricovero post-incidente, ma che egli
consegue soltanto nel momento in cui la lettura della lettera da lui vergata gli
attribuisce la funzione genitoriale, in senso anche di trasmissione di una tradizione
messa tra parentesi dall'attuale corsa all'occidentalizzazione.
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