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Kedma - Verso Occidente
Anno: 2002
Regista: Amos Gitai;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Israele;
Data inserimento nel database: 11-06-2002


kedma
Kedma - Verso occidente

L'attesa è la cosa più difficile


Come già in Kippur, filone di passione politica a cui appartiene (ma se non inizia con la "k" non può esser un titolo di Gitai?) anche Kedma, s'inizia con un corpo, una schiena femminile si denuda esponendosi alla mdp e iniziando un rapporto che si interrompe, ma non si ferma il piano sequenza che esce dalla affollatissima coperta della nave, dove i due amanti avvinghiavano i loro corpi - molto più castamente che nei colori di Kippur -; oltre alla promiscuità risalta l'assenza di parole, totale, quasi non si possano ancora adoperare, l'orrore non si può ancora comprendere... al limite si può cantarlo. Da qui i frequenti siparietti canori molto pallosi.
La narrazione - che avviene sul ponte, quasi a liberarsi del - delle vicissitudini dei sopravvissuti è involontariamente reticente: non sono in grado di raccapezzarsi negli eventi attraversati e, un po' troppo ispirati, rimandano alla terra promessa la soluzione, dove puntualmente ciascuno avrà un'illuminazione - che il più delle volte li condurrà alla morte, quella morte che ha ancora radici in Europa."Radice" non è un termne casuale, perché la dicotomia dell'appartenenza trasuda da tutto il film, fino all'esordio lancinante del piano sequenza che simmetricamente racchiude il film dentro un anello stilistico nell'epilogo quasi tarkovskiano della carrellata sullo sfondo dei camion (non ancora blindati) in fila sulle strade polverose alla conquista di una terra rivolta "verso occidente" (sintomatico che la direzione di un film kurdo - altro popolo in diaspora, molto meno fortunata - fosse opposta: Viaggio verso il sole è il doloroso ritorno di una speranza infranta), il punto cardinale opposto a quello in cui si trova Gerusalemme e improvvisamente la preconizione e il disvelamento: «Noi non abbiamo una storia nostra: ce l'hanno fatta gli altri popoli. Senza la sofferenza non saremmo mai esistiti». la rivelazione della condanna a patire sofferenze per sancire la propria esistenza, insieme all'altra verità che scorre nella mente improvvisamente lucida: «Condannati a rimanere nella diaspora per l'eternità: ormai la Terra d'Israele non appartiene più agli Ebrei».
In mezzo ai due piani sequenza si accavallano: la predisposizione all'ascolto delle storie, le più disparate; la sospensione dell'attesa, sperando nei segni del destino, ma anche nella estatica contemplazione della natura, invettive a Dio, assente durante l Shoa, ma "grazie a Dio siamo diventati laici"; l'illusione di una possibile dignità nel socialismo dei kibbutz; l'inserimento delle ragioni dei palestinesi.
L'inquadratura si predispone spesso all'inizio come in una sorta di postura reverente nei confronti delle storie dei personaggi: è un po' reclinata in posizione di ascolto e comprende i volti senza perlustrarli, ma come per raccogliere testimonianze preziose, rincantucciati a rievocare fughe da situazioni umilianti, rivolte dei ghetti si rianimano nelle parole centellinate dal narratore che si rivolge a un'interlocutore che siamo noi, ma non in soggettiva del regista-cinepresa, bensì tra la macchina da presa e un punto lievemente spostato dall'occhio dell'obiettivo, posizione che consente di riprendere frontalmente l'affabulatore, ma senza che questi si rivolga teatralmente in macchina, benché sia proprio quello che fa. In questo modo le considerazioni sono invettive, i ricordi sono storia, i giudizi sono anticipazioni dell'attuale crisi, una interpretazione lucida, che affonda la consapevolezza nel fatto che ha presente l'intera storia degli ebrei nel secolo appena trascorso.
Le tappe dell'intreccio consentono di chiudere una prima ferita completando l'abbraccio interrotto bruscamente dallo scioglimento dell'unione dei due corpi in coperta, davanti a uno dei tanti falò che gettano una luce inquietante sul terreno stepposo, che già aveva caratterizzato Kippur: un abbraccio di parziale distensione con il quale termina una sospensione derivante dal passato e si crea una bolla di attesa sul futuro nel quale continua ad abitare il non-detto, l'indicibile sostituito da sguardi che accarezzano tangenzialmente i corpi, quasi timorosi di scalfire le anime, finché il recalcitrante silenzio è rotto dalla richiesta che denota una nuova sicurezza: "Lasciatemi assaporare questa bufera", segno che "Tra poco riprenderà la vita". Il film è tutto sospeso in quel varco in cui la vita è ancora sospesa, in attea di quella aurora livida, che sorprende il gruppetto di terroristi sionisti su un crinale in controluce. I momenti di più intensa recitazione vengono solo dopo e questa prima parte dedicata alla natura apre anche troppo alla compnente confessionale, rappresentata nell'ottuso Menachem: la lezione di sten -recitata frontalmente, come a mettere di fronte all'impossibilità di sottrarsi all'esercizio di violenza -, attrezzo di morte per un popolo che decide di avere una vocazione bellicosa, l'uomo che rievoca la battaglia combattuta con il padre - morto in azione - appena in tempo per andare a ricevere la scheggia di granata a lui destinata, prologo alla sequenza di guerra più intensamente evocativa, che si apparenta per simbologia ed emersione di individualità ad alcuni momenti della Sottile linea rossa, l'invettiva del palestinese derubato del mulo e quella della donna araba in fuga che riconosce nei fuggitivi ebrei i nemici che le hanno portato via la terra, l'urlo di disperata sofferenza finale per il destino di esilio in patria, che accomuna le due popolazioni semite della valle del Giordano. Lucidissimo il monologo affidato al palestinese: «Qui resteremo, malgrado voi, fermi come un muro; saremo sempre pronti a combattervi. Porteremo le catene con orgoglio»