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Zhantai
Anno: 2000
Regista: Jia Zhangke;
Autore Recensione: Sara Borsani
Provenienza: Hong Kong; Giappone; Francia;
Data inserimento nel database: 19-09-2000


Zhantai

Visto a Venezia 2000
Scheda tecnica

Regia Jia Zhangke
Sceneggiatura Jia Zhangke
Fotografia Yu Lik-wai
Musiche Yoshihiro Hanno
Costumi Qi Lei, Zhao Xiafei
Direttore artistico Qiu Sheng
Montaggio Kong Jinglei
Produttore Li Kit-ming, Shozo Ichiyama
Produttore esecutivo Masayuki Mori
Produzione Hu Tong Communication, T-Mark Inc. e Artcam International
Cast Wang Hongwei, Zhao Tao, Liang Jingdong, Yang Tianyi, Wang Bo, Song Yongpin
Hong Kong, Giappone, Francia 2000

Un lasso di tempo, 1979-1989, che ripercorre le tappe fondamentali del cambiamento socio-economico della Repubblica Popolare Cinese, una canzone taiwanese (Zhantai, "Platform" o "Pensilina", com’è stata letteralmente ed infelicemente tradotta) che dona il titolo a questo film ma che rappresenta anche il motivo conduttore dell’attesa che pervade ogni singola inquadratura, ogni attimo di vita di questi sperduti luoghi, una produzione che coinvolge Oriente ed Occidente e che sfugge per una volta alla censura del governo cinese…questo l’incipit, questa la miscela che dà vita ad uno dei film più interessanti, poetici e lunghi (come tutti hanno più volte sottolineato la durata è di 3 ore e13 minuti, non uno di più, non uno di meno) di tutta la Mostra del cinema.

Un’opera che non annoia, ma che coinvolge e riprende le tematiche e gli stili cari ai cantori visivi della cultura della Terra Gialla (per citare autorevolmente uno dei grandi maestri del passato, Zhang Kaige, rappresentante della quarta, quinta - ormai non si contano più - generazione dei cineasti cinesi), avvolgendo lo spettatore in atmosfere ora fredde ora ricche di movimento e costringendolo ad osservare con attenzione la storia per non perdere il senso più profondo dei cambiamenti storici ed epocali di un popolo che sorride con le canzoni italiane (da "O bella ciao" alle melodie anni Sessanta, che già suonavano ridicole nella versione italiana di contro alla musica americana, figuriamoci nella traduzione cinese!), viene ammaliato dai balletti, stile break-dance, di avvenenti fanciulle fasciate in tutine per noi castigatissime, ma che in quelle lande desolate, dove ancora campeggia nel focolare domestico il ritratto di Mao, appaiono al limite del pudore, ma che non riesce a liberarsi completamente del pesante fardello del passato.

Inverno 1979, in un piccolo villaggio dello Shanxi (una remota provincia cinese) viene portata in scena dalla compagnia culturale locale una rappresentazione della piéce teatrale "Train Heading for Shaoshan" (dal nome della città natale di Mao Zedong). La vita di quattro giovani ragazzi del luogo sembra essere intimamente legata alle sorti del gruppo teatrale di cui fanno parte ed il film non è altro che una delicata immagine dello scorrere lento ed inesorabile del tempo e dei destini di Minliang, Ruijuan, Changjun e Zhong Pin. Un defluire che nulla può contro l’avvento della modernizzazione, e se il progresso economico sembra ancora una realtà lontana per quelle famiglie che sono costrette a lavorare duramente, quello sociale sembra essere devastante e destabilizzante per una cultura che nell’arco di trent’anni ha fatto del Grande Timoniere Mao il suo eroe e la sua musa ispiratrice. Così di fianco a strade dissestate, mezzi di trasporto ante-diluviani e vestiti rattoppati, appaiono i primi segnali delle nuove tendenze ("nuove" nel senso cinese del termine, visto che per noi non sono altro che obsoleti ricordi di un mondo che fu) europee ed americane: i pantaloni "a zampa d’elefante", i capelli lunghi per gli uomini e con la permanente per le donne, le sigarette, la musica pop…il sentimento di ribellione che pervade l’animo dei protagonisti e che li spinge alla fuga da una realtà che li opprime, alla ricerca di una propria identità attraverso inutili e poco fruttuose tournée.

Alla fine di questo lungo viaggio, sarà però proprio il più ribelle e trasgressivo dei quattro a scegliere il ritorno alla tranquillità del focolare domestico accanto al suo primo amore, diventata ormai una seria ed irreprensibile guardia tributaria.

Lo stile intimo ed indagatore conquista e nello stesso tempo tranquillizza lo spettatore terrorizzato dalla titanica fatica di restare seduto per 193 minuti, mentre la magia dei luoghi innevati e a tratti incantevoli affascinano e stupiscono.

Un film da osservare con attenzione, per cogliere un momento storico significativo anche per l’Italia della Lotta Armata che vedeva nel Maoismo una corrente filosofica e di vita e per l’Italia dei giorni nostri che sempre più si avvicina alla Cina, sia come meta di un turismo culturale, sia come nuovo polo economico mondiale…e con gusto cinefilo, per apprezzare la nuova corrente intrapresa dai giovani cineasti cinesi, uno sguardo non più cupo, ma attento ed ironico.

Dice il regista: "Platform era una canzone rock molto in voga in Cina durante il 1980. E’ una canzone sull’attesa. L’ho scelta come titolo del mio film perché rappresenta un legame con la speranza quotidiana. Una pensilina può essere contemporaneamente punto di partenza e conclusione di qualcosa. Noi aspettiamo sempre, siamo sempre sulla strada alla ricerca di qualcosa. La narrazione di Platform segue lo sviluppo dei personaggi di contro allo sfondo di un cambiamento costante (…) è un film sugli esseri umani, a partire da questi io voglio esplorare ed esibire il progressivo potere nascosto nell’animo umano".