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Vuoti a perdere
Anno: 1998
Regista: Massimo Costa;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 24-02-1999


Vuoti a perdere
Regia: Massimo Costa
Soggetto: Claudio Lizza.
Sceneggiatura: Claudio Lizza. e Massimo Costa
Fotografia: Renato Tafuri
Montaggio: Fernanda Indoni
Scenografia: Mario Rossetti
Costumi: Fulvia Amendolia
Musica:Massimo Nunzi
Interpreti: Giancarlo Giannini: Cesena
Silvia De Santis: Simonetta
Max Malatesta: Fabrizio
Vincenzo Peluso: Cane
Gianni Garofalo: Bardi
Gianfelice Imparato: Menzione
Rosa Pianeta: Zia simona
Victor Cavallo: Il Caposquadra

Produttore: Enzo Porcelli
Produzione: Alia Film e Istituto Luce
Distribuzione: Istituto Luce e Achab Film
Formato: 35 mm.
Provenienza: Italia
Anno: 1998
Durata: 90'


Dopo un prologo, che s'immagina debba in qualche modo avere attinenza con il rapporto incestuoso-figliale del commissario con la ragazzina gettata a capofitto verso il suo destino, sennò è un episodio inspiegabile per la sua marginalità, ciò che colpisce è la determinazione di tutti a innescare il meccanismo che travolgerà la loro interazione, ma soprattutto le emozioni che ognuno prova immediatamente per ciascuno degli altri quattro protagonisti chiusi nella stanza degli interrogatori (Fabrizio inquadra come antagonista l'aiutante ed è succube di Simonetta, che incuriosisce il commissario e arrapa l'aiutante Cane, in stato di sudditanza del commissario, indeciso sull'atteggiamento da assumere nei confronti della giovane e di quali decisioni prendere nei confronti dei due balordi).

Nella sequenza iniziale tutto avviene secondo schemi classici (e quasi telefilmici, se non fosse per la bravura di Giannini nei panni del commissario Cesena): si tratta di un'introduzione innanzitutto alla città, Genova e tutti i suoi drammi derivanti dalla chiusura delle persone e vista attraverso la freddezza dei sui arredi architettonici articolati come una anonima città provinciale americana in scala ridotta (le molte sopraelevate e la tangenziale, persino i carruggi non sono animati che da passanti frettolosi e rigorosamente isolati); e poi al travaglio del personaggio, segnato dalla morte del suo socio di pattuglia anni prima dell'episodio narrato nella pellicola.

Il film, interessato all'introspezione psicologica dei due conduttori del gioco, non cura troppo i dettagli e i caratteri sono molto schematici: il poliziotto ucciso nel prologo, come il giovane coinvolto nella nottata di trucide confessioni, è il classico sbirro prepotente affetto da presunzione di onnipotenza derivante dalla professione (uguale all'esibizione di appartenenza al corpo del giovane appuntato Cane, nomen homen, dileggiato dal superiore o alla macchietta dello scaricatore del mercato, novello Maciste-Pagano) e la sparatoria in cui perde la vita non viene descritta con toni esaltatori per le forze dell'ordine, risultando utile soltanto per instillare il dubbio, che Giannini riesce a mantenere mirabilmente sospeso, di una sottile ombra di rimorso, la quale avrà buon gioco a scatenare l'ordalia: infatti le botte scattano nel momento in cui il ragazzo rivela di aver inserito nella pistola rubata pallottole a frammentazione, quelle che avevano ferito il commissario. L'attenzione di Costa si focalizza particolarmente sui personaggi deuteragonisti di Cesena e Simonetta Vanelli: entrambi strepitosi, forse perché il confronto con gli altri attori non esiste nemmeno, data l'inconsistenza: difatti, se è plausibile che Simonetta irretisca tutti quelli con cui viene a contatto per le fossettine e l'avvenenza che fa presa anche sul commissario, non si spiega invece quale fascino promanerebbe da Fabrizio e soprattutto come possa legittimare l'atto d'amore estremo un giovane tratteggiato come succube di Simonetta.

È bello vedere invece come per Giancarlo Giannini e Silvia De Santis sia facile mantenere inespressa quella sensazione che si rimanda alla sensibilità dello spettatore cogliere: l'interesse del film si limita proprio a quella sfida che scambia i ruoli di preda e cacciatore fino a rendere credibile la sconfitta di entrambi, un gioco che permane sempre sospeso sul limite della rivelazione e s'immagina di poterlo mantenere sotto controllo, fino all'epilogo, scatenato dall'urgenza di confessare da parte della ragazza e dal bisogno del commissario di mantenere a livello di gioco il processo innescato, per timore dell'orrore che ha intuito di poter scoprire. Un intreccio che trova radici nel sollievo cattolico derivante dalla confessione: lo sgravio di coscienza come anelito di entrambi. Per lei è una liberazione, per il commissario invece svolgere il ruolo di confidente significa farsi carico dell'orrore, avendo intuito la possibilità di simpatizzare.

Il rapporto tra le quattro persone s'inizia come un diversivo inventato dai due sbirri ("Li vogliamo fare cagare sotto?"), prosegue sulle sfumature dell'ironia ("Allora sei un bravo ragazzo: hai solo avuto una giornata pesante?"), trascolora sui toni del giudizio quando la redarguisce per essere fuggita dopo aver istigato al furto, diventa complicità nella persecuzione del puttaniere; e a questo punto il film decolla, prendendo una strada più concitata, adattata al noir imperniato sulla femme fatale, il cui destino segnato si rivela improvvisamente come una china da percorrere invariabilmente. In realtà tutti questi stadi contengono in sé il loro opposto, se rivisitati a posteriori: risalendo a ritroso si individua come doveroso l'intervento vendicativo in quell'atmosfera distesa di racconto quasi conviviale, preceduto dal rimbrotto quasi paterno per la fuga e l'atteggiamento è paternalista fin dall'inizio. Per questo appare una gradita sorpresa quando cambia il registro, non a caso con la frase chiave, pronunciata sulla spiaggia: "Non ammazzeresti neanche un cane per me", la sfida letale per cui l'estrema prova d'amore passerebbe attraverso la morte. Ed è infatti proprio in questo frangente che viene inserita una esplicita quanto scontata sequenza di sesso.

La scorribanda in auto con il rappresentante di liquori contiene tratti ridicoli (le scintille della carrozzeria) o decisamente privi di creatività (ventiquattromila baci). Poi però si riscatta con la glaciale fine del racconto.