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Vou para casa - Ritorno a casa
Anno: 2001
Regista: Manoel De Oliveira;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Francia; Portogallo;
Data inserimento nel database: 15-06-2001


Je rentre à la maison - Ritorno a casa

 

regia
Manoel De Oliveira

sceneggiatura
Manoel De Oliveira e Júlia Buisel

fotografia
Sabine Lancellin

montaggio
Valérie Loiseleux

suono
Jean-François Auger, Henri Maïkoff

costumi
Isabel Branco

produzione
Paulo Branco

provenienza: Francia, Portogallo
durata: 129'

Tre capolavori divisi dagli intervalli della vita: aiutano a dissolvere la realtà

Vou para casa

Rientro a casa


Je rentre à la maison

interpreti:
Michel Piccoli .... Gilbert Valence
Antoine Chappey .... George
Leonor Baldaque .... Sylvia
Leonor Silveira .... Marie
Ricardo Trêpa .... The guard
Jean-Michel Arnold .... The doctor
Adrien de Van .... Ferdinand
Sylvie Testud .... Ariel
Andrew Wale .... Stephen
Robert Dauney .... Haines
Catherine Deneuve .... Marguerite
John Malkovich .... The director

 

 

_ Usare le rappresentazioni teatrali come vero specchio della realtà, ma anche per il gusto di mettere in scena parti di piece suggestive, è funzionale alla riproposta della struttura episodica privilegiata in taluni testi del regista portoghese.

  • e allora Le roi se meurt di Ionesco serve per ribadire il rimpianto insito nella mancanza di tempo (ossessivamente ripetuta la battuta: "Non ho avuto tempo") e soprattutto sottolineare la presunta autosufficienza di Gilbert Valance ("Lo stato sono io"), ma anche a insinuare un cambiamento ("Non è più al di sopra della legge"), descrivere il momento in cui si compie davvero la tragedia: Berengario/Valance vorrebbe che tutti vivessero la sua vita, non potendo più trattenerla, e in questo modo perpetuarla, oppure che tutti gli altri fossero schiantati con lui in modo che gli venisse meno difficile lasciare un mondo che non c´è più; la sua follia è voler proseguire la vita oltre il suo naturale termine, lo stesso limite che si è andato insinuando in lui nel momento in cui è rimasto solo, quel momento anticipato dal testo di Ionesco ("Non hai più la parola, il tuo cuore non è il caso che batta più").

    Quel gioco di sottrazione al mondo o di sopravvivenza alla sua estinzione è presente nel film anche per il fatto che Berengario interagisce sul palco con una moglie e una figlia, quelle che gli vengono sottratte dall´incidente. La notizia del quale ci viene suggerita a parte, salvaguardando il momento sempre penoso della rivelazione, ma anche occultando la notizia, quasi che oltrepassato il momento per il fatto di non averlo mostrato, questo non possa incidere sull´esistenza dell´attore; ponendola fuori campo ne sancisce la sua estraneità al mondo teatrale, l´unico che può formalizzare la vita, avanzando un´interpretazione.


    Anzi tre: una surreale, patafisica, crudele (importante che De Oliveira lasci scorrere senza cassare la parte di testo che fa riferimento alle responsabilità dei singoli "che obbedivano a ordini, non giustiziavano"); l´altra classica, magica, panica; la terza sperimentale, nichilista, linguistica per antonomasia, palcoscenico adatto per uscire di scena.

    _ Assenza di parola per un attore equivale alla morte: infatti eccolo al di là delle vetrine, il vetro si frappone alle parole, e lui è equiparato a un manichino nel montaggio che si avvale della alternanza tra un lato e l´altro del vetro in funzione simbolica, ma anche di lieve ironia; lo vediamo ancora, viene omaggiato, firma autografi che ne certificano l´esistenza, ma qualcosa si è spezzato.


    La macchina da presa s´inventa un linguaggio nuovo che differenzia le riprese in teatro, molto statiche e canoniche (tranne la geniale ripetizione del meccanismo di Mon cas con la iterazione delle stesse battute dotate volta per volta di differenze non ascrivibili al linguaggio teatrale) da quelle esterne giocate su sorprendenti inquadrature, che giocano con l´attenzione dello spettatore: e allora il gioco spiritoso del bistrot ripreso da fuori, rimanendo con lo sguardo fisso anche quando lui e il suo Libé escono di scena per lasciare il tavolino sempre al solito avventore che legge le Figaro, finché qualcosa si inceppa (Liberation ha lo stesso titolo - Par ici la sortie - e anche il giornale conservatore sembra ribadire un titolo già visto) e il tavolino risulta occupato, il meccanismo non scorre più bene.

    I prodromi di questo inceppamento si indovinano nell´acquisto delle scarpe, sempre afono, evidenza della funzione fatica del linguaggio quando non si hanno "più parole", e da dietro le vetrine, ma prolettico dell´altra ripresa sorprendente: il dialogo tra scarpe. Indugiando sulla merce, ci lascia il tempo per meditare sulla solitudine, sulla punta delle scarpe: quante volte osservando un uomo solo lo sorprendiamo chinato, la testa fra le mani, intento a guardare le sue scarpe; De Oliveira si limita a ribaltare lo sguardo attribuendolo a noi, ma questo avviene dopo la rappresentazione di The Tempest.

  • "Tutto si dissolverà al pari di questo incorporeo spettacolo". Probabilmente il secondo passo verso la sparizione si riassume in questa battuta. L´identificazione in Prospero restituisce quella condizione di sospesa grazia tra gli spiriti, uno stato di sorpresa popolata di leggere presenze, sogni, forse ectoplasmi. Immagini, illusioni, ricordi: "Siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni". E li popoliamo non solo in teatro, soprattutto quando si è avviato il lento processo di scivolamento fuori della realtà, di cui l´attore viene spogliato da una rapina notturna che lo lascia senza scarpe, senza portafoglio, un´aggressione ripresa in quella sospensione quasi metafisica mettendo a confronto i due uomini in uno spazio che sembra ritagliato fuori della città come l´isola di Prospero colloca il microcosmo dei personaggi in un´atmosfera onirica.

  • _ Finché non si stacca sui volti, abbandonando le scarpe al loro dialogo sulla solitudine – "In solitudine" è detto in italiano, quasi fosse una modalità di esecuzione, un´indicazione di quelle che si trovano nelle partiture – e nel momento dello stacco anche la battuta stacca dal momento straniante, richiamandoci alla realtà paradossalmente evocando la professione simulatrice di Valance ("Ecco il grande attore"), che risponde: "Vivo come posso", quasi volesse sottolineare lo stato di sospensione tra i due mondi che si confondono in lui ancora di più nel momento in cui nulla ormai – a parte Serge, il nipotino – lo lega al mondo.

    Interessante da ultimo è la iterazione dei luoghi: lo scorcio di Parigi, la struttura degli episodi che corrispondono l´uno all´altro anche nelle citazioni musicali: dopo il brano di Ionesco si sottolinea Chopin, il cui triste romanticismo incombe sulla passeggiata dell´attore, mentre Pablo Casals fa da paradigma negativo per il suo pervicace attaccamento alla sfera mondana e introduce l´episodio di rifiuto sdegnato dell´offerta di uno sceneggiato televisivo in cui avrebbe dovuto fare il vecchio rimbambito che si fa adescare dalla lolita di turno; nel rifiuto è compreso anche il chiamarsi fuori da una realtà incomprensibile.
    Un processo completato dal terzo grande classico, sbilanciato sul versante linguistico, Ulysses di Joyce, diretto da John Crawford (qualche allusione all´attrice omonima per il personaggio di Malkovich?), in particolare nello schema interpretativo stilato da Linati per il capolavoro di Joyce al primo capitolo (quello di Telemaco-Stephen, personaggio legato all´idea di rimorso nell´intreccio joyciano, che parla nella torre con Buck Mulligan) si associa la teologia – e forse al lavoro di Shakeseare nello schema del film si potrebbe associare la magia, riservata da Joyce alla danza del capitolo di Circe. E forse il dublinese avrebbe apprezzato la precisa e filologica ricostruzione della colazione che mescola Upanishad e frittata divisa "In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti", una blasfema eucaristia.

  • "Che bella festa, che bel festino

  • Con whisky, birra e vino
    Quando è il dì
    Il dì dell´Incoronazione
    Che bella festa, che bel festino
    Il dì dell´Incoronazion!"

    L´ingresso di Buck Mulligan/Valance s´inaugura con una lunga seduta di trucco da cui Piccoli esce trasformato in un altro, ma la sua adesione al testo irriverente non è più precisa, probabilmente è così estranea da apparire intollerabile proseguire la recita, che assiste alla sua uscita di scena, ben prima che arrivi il latte di Sandycove, l´alimento legato alla nascita, che dunque con lui non ha più molto a che fare ("The milk, sir" s´impone fuori luogo, perché lui è ormai altrove). L´idea geniale è di utilizzare il viso espressivo di Malkovich per illustrare la scena di cui sentiamo le parole, quelle stesse che hanno perso il sincrono con le immagini in quella carrellata iniziale di vetrine isolanti, e solo durante le riprese del giorno dopo seguiamo la scena, nella quale si ripetono gli stesi errori sulle medesime battute già confuse durante i primi ciak: la sequenza appare diversa, ma è semplice ripetizione di quanto si è già sentito. E questa ennesima ripetizione lievemente slittata (anche gli scorci parigini mutavano per luce: diurna, mattutina, pomeridiana, piuttosto che notturna, buia), che spinge l´attore a interpretare definitivamente lo spirito dell´Odissea: il nostos di Ulisse diventa la resa di Valance, a cui assiste lo sguardo lievemente attonito del nipotino, immalinconito e sensibile all´improvvisa uscita di scena del nonno, svuotato delle parole, dell´atmosfera magica e della storia: "Ritorno a casa", appunto la trama dell´Ulisse.