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Viehjud Levi
Anno: 1998
Regista: Didi Danquart;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Germania;
Data inserimento nel database: 26-01-2001


Viehjud Levi

 

regia
Didi Danquart

sceneggiatura
Didi Danquart, Martina Döcker
tratto dall'omonima piece teatrale di Thomas Strittmatter

fotografia
Johann Feindt

montaggio
Katja Dringenberg

scenografia
Susanne Hopf

musica
Cornelius Schwehr

costumi
Inge Heer, Ingrid Weiß

produzione
Martin Hagemann per zero film

provenienza: Germania
durata: 93'

Scene di caccia in Bassa Baviera, 1968. Forse è l´ambientazione che richiama alla mente il vecchio film di Peter Fleischmann durante la visione di Viehjud Levi di Didi Danquart (1998), nonostante i colori e la progressione. Però è uguale la determinata violenza che gradualmente occupa quello stesso intero schermo in cui nel primo quadro invece si stendevano declivi leziosi, immersi in una corona di acquerelli che fanno pensare al titanismo romantico





interpreti:
Bruno Cathomas . . . . Benjamin Levi
Caroline Ebner . . . . . . Lisbeth Horger
Bernd Michael Lade . . . Paul Braxmaier
Martina Gedeck . . . . Fräulein Neuner
Ulrich Noethen . . . . Ingenieur Kohler
Eva Mattes . . . . . Kreszenz Horger
Gerhard Olschewski . . Andreas Horger
Günter Knecht . . . . Knecht Marties

 

 


La descrizione di come un totalitarismo, una barbarie razzista, il leghismo costruito sulla stessa intolleranza di Haider, il subdolo neofascismo mediatico, si insinuino melliflui in una comunità normale, ne controllino tutti i gangli al punto da mutare le persone più miti, spingerle al tradimento, all´atteggiamento violentemente razzista, a minacciare un amico. Il tutto attraverso illusionismo, lobbies, insinuazioni da un lato, e tanto pregiudizio credulone incapace di difendere spazi di autodeterminazione dall´altro, persone ordinarie che si trasformarono in mostri senza accorgersi di esserlo, mantenendo la normalità apparente. Unici simboli dell´allegoria sono infatti le bandiere naziste e la radio, ma sono sufficienti per indicare il riferimento, e soprattutto le impressionanti similitudini con l´attualità. In particolare l´apparecchio radiofonico, rifiutato dapprima con forza e poi con dispetto, in un gesto di stizzita reazione, spenta, impone la propria presenza con una inquadratura sghemba particolarmente ispirata: un po´ dall´alto, inclinata, in primo piano sulla destra campeggia la radio che sbraita i vaneggiamenti di Hitler, gettando la voce sulla sottomessa, in basso, impaurita da quella voce imperiosa, Lizbeth nell´atteggiamento che fu già dell´ultimo uomo (Der letze Mann). Si aggiunge un obliquo rimando all´iconografia nazista: Train de vie lo ha fatto assurgere a simbolo della deportazione, ma l´uso massivo del treno è entrato nell´immaginario collettivo attraverso quelle rotaie che terminavano nel campo di sterminio. Le stesse mostrate nell´introduzione del film che affastella serie di immagini pregnanti, personaggi che sono tipaz (il giovane sul motorino Miele somiglia molto all´iconografia che illustra Till Eulenspiegel in bici, magari nella versione di Paolo Poli).


Particolarmente incisivo è il fatto che non si procede a nessuna violenza efferata, talvolta si giunge a sfiorarla, ma è l´inarrestabile spinta verso l´intolleranza a venire descritta con lucidità annichilente e fin dall´inizio si riesce a creare in particolare nella taverna quella tensione che rende palpabile quella paura serpeggiante: non c´è nulla da fare di fronte a quel potere che passa come un rullo compressore sugli equilibri di una comunità, la ribalta senza farsi accorgere, lasciandola trasformata; eppure non si riesce – volutamente, ed è questa la notevole forza innovativa del film – a isolare i singoli meccanismi che producono questa involuzione barbarica, null´altro che la sensazione che si sia innescato un processo senza che lo spettatore riesca ad analizzarlo, ricostruirlo, individuare il gesto che ha portato allo sconquasso: solo una serie di atteggiamenti sicuri di sé ("Dai, che prima o poi capirà anche lui"). In questo senso è azzeccatissima la scelta della ferrovia come cavallo di Troia introdotto nel tranquillo paese: il mito del progresso falsifica se stesso, ammalia, seduce e cancella i valori precedenti, sostituendoli con quelli sottilmente insinuati dal potere con il risultato che senza utilizzare i toni cupi dell´espressionismo i personaggi assumono le parvenze degli automi così spesso messi in scena dal cinema di anticipazione tedesco degli anni venti.

Piuttosto sembra che i maestri a cui si rifa il regista siano quelli che negli anni 70 diedero vita al nuovo cinema tedesco: la prima sequenza s´inizia esattamente allo stesso modo di L´Enigma di Kaspar Hauser. Un uomo voltato di spalle, intabarrato di fronte ad un paesaggio idillico della foresta, immerso nella natura mentre si avverte il passaggio di qualcosa di anomalo che provoca inquietudine. La sua solitudine è paradossalmente sottolineata dai soliloqui temperati dalla presenza di un coniglio, suo unico compagno. Traspare con minore disperazione il timore fassbinderiano per i fantasmi del nazismo e soprattutto il coraggio della memoria di ricostruire la propria storia, quella del proprio paese, diventato simbolo dell´orrore. Esiste l´ossessione della memoria ed è anche vero che la Storia non si ripete uguale a se stessa, però quando i meccanismi si ripropongono e non esiste più il deterrente della conoscenza degli eventi, quei meccanismi non possono che dare luogo a effetti simili.


Altro aspetto terrificante, che si ritrova anche in certi brani della prosa di Jünger, è che tutti, compreso Paul – il giovane che perpetra uno scherzo atroce ai danni dell´ingegnere ferroviario emissario del fürher – capitolano, diventando fieri anti-semiti, attivi e non esecutori di ordini, bensì torturatori di propria iniziativa e non passacarte come vorrebbe farci credere Eichmann. Attraverso i meccanismi orditi dalla sceneggiatura si può capire cosa significa "totalitarismo": Paul è l´esempio macroscopico, giovane ribelle senza coscienza politica, ma d´istinto diffidente del potere, innamorato anche lui di Lizbeth, mette alla berlina l´ingegnere chiudendo una sequenza che era stata introdotta da una battuta sulla puzza "marrone" del nazi al suo arrivo il primo giorno (sostituendo il coniglio con la cacca, rovina il gioco di prestigio del gerarca, commentando: "La merda marrone resta merda marrone"), ma ne pagherà le conseguenze per le botte degli sgherri e poi passerà dalla parte del potente, uniformandosi a convinzioni che avrebbero fatto inorridire la comunità fino a poco tempo prima, ma che sono state introiettate individualmente per poi proporsi come espressione comune di un movimento politico; tuttavia non si riesce a focalizzare su cosa fa leva l´ingegnere si sa soltanto che "Sono cose che capitano da quando siete arrivati voi" (forse bisogna rimeditare meglio su episodi di intolleranza occorsi agli italiani – brava gente – da quando hanno sdoganato i fascisti: libri timbrati, bombe recapitate malamente, moschee negate con veemenza a Lodi…).

L´irreversibilità del fascismo si comincia a misurare da lì, quando non si presidiano più le capacità di discernimento dell´opinione pubblica e viene meno la vigilanza anti-fascista, subito dopo non ci rendiamo conto che il virus ha già occupato le menti dei nostri amici e vicini, quindi non ci rimane che andarcene o uniformarci. Le luci di posizione posteriori del camion di Levi se ne vanno nella notte del nazismo del secolo scorso… e non è solo un film.