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Vengo
Anno: 2000
Regista: Tony Gatlif;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Francia; Spagna;
Data inserimento nel database: 10-07-2001


Vengo

 

regia e sceneggiatura
Tony Gatlif

sceneggiatura
Tony Gatlif e David Trueba

fotografia
Thierry Pouget

montaggio
Pauline Dairou

suono
Dominique Gaborieau, Régis Leroux, Philippe Penot

costumi
Nieves De la Calle, Ana Sousa

produttore esecutivo
Nathalie Duran

provenienza: Francia, Spagna
distribuzione italiana: Mikado
anno: 2000


No tengo patria è il riff della canzone che fa capolino nei momenti struggenti

Vengo


interpreti:
Antonio Canales .... Caco
Orestes Villasan Rodriguez .... Diego
Antonio Perez Dechent .... Primo Alejandro
Bobote .... Primo Antonio
Juan Luis Corrientes .... Primo Tres
Fernando Guerrero Rebollo .... Fernando Caravaca
Francisco Chavero Rios .... Francisco Caravaca
José Ramírez 'El Cheli' .... Primo Caravaca 1
Juan-Luis Barrios Llorente .... Primo Caravaca 2
Jesús María Ventura .... Primo Caravaca 3
El Moro .... Pepe sardina
Manuel Vega Salazar .... Anselmo
Maria Faraco .... La Catalana
Natasha Mayghine .... Alma
Maria Altea Maya .... La Coneja

 

 




Vengo.
Non è un'esclamazione orgasmatica, anche se la seduzione dei corpi danzanti potrebbe condurre poi a un epilogo coerente.
Non è nemmeno un film appassionante, perché molto distante dalla nostra sensibilità, che però rimane soggiogata dallo splendore delle improvvisazioni e dai cromatismi un po’ velati della fotografia.
Non è neanche un nocumentary, in quanto proviene direttamente dal gusto interno al gruppo che esprime quei costumi, rendendo inutile l’apporto di qualunque antropologo.
Non è tantomeno un film con un intreccio coinvolgente, poiché si limita a fare da contorno a slegati momenti di festa, dramma, lutto, esibizione.
Sorge spontaneo al gagé che ci incappa uscire dal cinema con gli occhi cisposi, esalando un catartico: "Che palle!"
Sarebbe ingeneroso, anche perché ci sono alcuni momenti dove si riesce a superare l'intento estetizzante e si gode di puro cinema: ad esempio la sequenza che unisce una bambolina danzante nel vento al protagonista sonnacchioso e a tre donne riprese dall'alto nel turbinio di una danza: l'apparentamento delle tre situazioni va a creare una sintesi che si sviluppa poi ripescando tutti gli episodi fin lì inseriti a mo' di estemporaneo contributo alla ricostruzione di un mondo e delle sue regole. La sequenza è collocata esattamente al centro del film e dà nuova spinta per arrivare alla tragedia finale, quasi anticipandone il fatalismo. E la scena finale è davvero un gioiello di montaggio sonoro e visivo: fa il paio con la canzone delle macchine di Bjork affiancata da Catherine Deneuve. Una sinfonia di pistoni di un trattorino, fatta di dettagli e gesti, di rumori che si trasformano in note, di cadenze meccaniche che diventano ritmo in un climax simile alla musica, per lo più flamenco contaminato dalle molte permanenze imposte al popolo nomade, fin lì prodotta attraverso una contaminazione di generi, una koiné musicale dichiarata fin dalla prima sequenza, dove alla coppia violino-chitarra rispondono sitar e flauto indiano (e conoscendo Latcho Drom si spiega ulteriormente il connubio di tradizioni) fino al canto evocativo di una storia che potrebbe benissimo essere quella che si va dipanando.



Il modo di narrare è debitore del bisogno di narrarsi sempre le stesse storie da parte della comunità rom, probabilmente proprio per sancire la propria identità costantemente e dunque l'ennesima storia di faida e di sacrificio per la famiglia, come sempre malinconicamente votati alla morte, intesa come destino a cui non si sfugge in virtù delle regole e dell'onore: eccellenti i tagli delle inquadrature stretti sui volti dei familiari che abbandonano Alejandro su sua richiesta nei pressi del cimitero dove riposa la sua donna, tutti sono consapevoli che deve andare a farsi ammazzare, ripresi dal basso, un po’ sbilenchi; solo attraverso quei volti si può ammettere un epilogo così melodrammatico, sancito dai rintocchi di campana in primissimo piano, la stessa chiesetta bianchissima inquadrata all’inizio del film.
Controverso è invece il ruolo del ragazzino spastico, da un lato sembra giustapposto senza motivo, un meccanismo di commozione, ma dall’altro sorge il dubbio che venga coinvolto nelle attività musicali, ludiche, coreografiche, quasi a voler sottolineare una integrazione degli handicappati nella comunità rom superiore che in quella gagè.


I corpi, soprattutto nella parte iniziale sono portenti muliebri, ondeggianti nelle figure della danza, molto ben ripresi per accentuare la seduzione e la evidente gioia di possedere un corpo sano, giovane e bello da far muovere in quel modo elegante al ritmo di una musica sempre molto contaminata nei suoi condizionamenti già rimasticati dalla tradizione gitana e amalgamata: il massimo in questo senso si tocca nella spontanea esibizione delle tre donne che si producono in uno scatenato flamenco (il blues d'Europa) alternandosi sul cassone del furgone in mezzo ai campi immersi in tinte autunnali. Questo fa sì che la fruizione possa anche partire dalla musica e da lì ricostruire l'intreccio attraverso i molti episodi puramente musicali, limitandosi a godere dei sipari dedicati all’espressione artistica. Tenera è la figura del ragazzo spastico, che dovrebbe pagare la colpa del padre - bella l'idea di non specificarla o ricostruirla, lasciandola alla leggenda - e a cui si sostituisce lo zio - pregevole la serie di primi piani sbilenchi dei parenti che sono costretti a lasciarlo andare verso il suo destino - però è sviluppata con criteri per il gusto gagè in modo un po' fastidioso e forzato, proprio dal punto di vista delle situazioni filmiche che va producendo, come la pleonastica sequenza della telefonata in mezzo alla strada o il flamenco dei quattro uomini improvvisato sempre sulla strada nei pressi di Siviglia dove si svolge l'intero film. Questi ultimi non sono giudizi di merito, ma indicazioni di lettura fatte per rendere tollerabile anche a un pubblico gagè alcune sequenze che sembrano inutili: sarebbe colonialismo culturale immaginare di espungerle. Anche nei film di Kusturica si trovano (Il tempo dei gitani in particolare) alcuni momenti per noi poco rappresentativi, ma che nella sensibilità rom hanno un valore centrale e sancirebbe la totale globalizzazione se recensendo un film di Gatllif non si tenesse conto delle differenze non solo del contenuto ma anche della forma adatta alle storie gitane, al di là dell’ovvio apprezzamento, questo sì estetizzante, per le musiche e le danze riprese magistralmente.