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Terra della paura - Ard el Khof
Anno: 1999
Regista: Daoud Abd El Sayed;
Autore Recensione: adriano
Provenienza: Egitto;
Data inserimento nel database: 07-12-2000


Ard el Khof

 

Ard el Khof


regia sceneggiatura e dialoghi Daoud Abd El Sayed
fotografia Samir Bahzan
montaggio Abdel Mounir
décor Onssi Abou Seif
suono Ahmed Gaber
musica originale Raged Daoud
interpreti Ahmed Zaki, Farah, Sami el Adi, Ezat Abou Ouf, Hamdi Gheeth, Abou Zahrah

produzione e distribuzione
Shoae Company for Production Media & Culture
29 Yathreb Street, Dokki, Cairo, tel 20-2-3369510

 

 

Ard el Khof di Daoud Abd El-Sayed è un lungo apologo esistenzialista, raccontato come un noir americano, ma ambientato in una società egiziana riconoscibile come tale, perché il tentativo è anche e soprattutto quello di dimostrare il danno subito dagli equilibri interni provocati dall'internazionalizzazione del paese arabo. La scelta vincente è quella di mostrare la materia trattata come in uno specchio: "Come noi vediamo Il Cairo, Il Cairo vede noi", detto da un ristorante panoramico durante lo scontro finale tra i due poliziotti, invertiti nell’apparenza dei ruoli.

Al contrario del solito, dato che non vedrete mai questo film distribuito nelle sale fuori dai confini egiziani, e sconosciuto a quasi tutti i motori di ricerca, si azzarda un abbozzo di sinassi assolutamente priva di elementi analitici, anzi tratta pedestremente dal catalogo del Torino Film Festival.

"Yehiaal Mankabadi è un giovane e promettente ufficiale di polizia che viene selezionato dal Ministero degli Interni per una missione molto speciale definita ‘Terra della paura’. Si tratta di infiltrare l’agente nella malavita organizzata egiziana che controlla il traffico di droga e il contrabbando di armi e reperti archeologici. Yehia dovrà anche indicare al ministero i nomi degli eventuali poliziotti corrotti che riuscirà a smascherare. C’è un solo problema: la sua missione durerà per tutta la sua vita".

La componente più interessante è il travaglio dell'io diviso del protagonista, il quale più volte ripete che lui stesso ormai non sa se sia un poliziotto o un boss mafioso; un incubo confuso con la realtà che ritrae una situazione talvolta onirica affidata a una voce off, che acuisce la divisione della maschera del trafficante dal poliziotto, la percezione è che la voce che ci accompagna in questa perdita di identità lunga trent'anni - senza che l'aspetto dell'eroe cambi mai - sia incatenata proprio a quel personaggio che nel '68 fu incaricato di una missione destinata a durare tutta la vita. Senza contatti e senza verifiche: né da una parte, né soprattutto da parte sua alcuna possibilità di accertarsi che il suo lavoro (e dunque la sua vita) potesse avere ancora un senso, inserendosi in un piano tuttora attivo.
A questo punto si inserisce la duplice beffa del destino: la prima sequenza mostra l'umiliazione subita da un collega, che si rivelerà nel finale ben più corrotto e compromesso con il traffico internazionale (ben più spietato), il film è racchiuso tra la battuta iniziale pronunciata nella sala da biliardo da cui s'inizia la carriera di Y. - "non siamo più colleghi" - e il pugno della resa dei conti; l'altra più atroce beffa è che unico giudice, spettatore e lettore dei suoi verbali, e dunque della sua vita, è il postino, il latore delle sue missive segrete prodotte per nessuno, una specie di tenente Drogo abbandonato al suo deserto dei tartari, completando il retaggio già insito al momento del conferimento dell'incarico: "Non devi recitare, sarà la vita reale. Ucciderai, sparerai realmente ai tuoi colleghi". Infatti lo ritroviamo subito come buttafuori, senza soluzione di continuità rispetto al prologo.

Lo stato abituale del protagonista del film è quello di una costante sospensione, a cui si aggiungono ulteriori momenti di attesa, che sembrano stridere vista la vocazione del gangster film, tendenzialmente di pura azione, mentre qui addirittura nel momento in cui il protagonista viene ferito, non c'è quasi lotta: dopo lo scazzottamento con gli scagnozzi, gli autori preferiscono soffermarsi sul duello di sguardi tra il boss accecato dall'ira e il buttafuori poi ferito in seguito alla sua granitica opposizione. Fin dall'inizio della storia, datata '68 - sullo sfondo delle manifestazioni studentesche - si gioca sulle sospensioni, derivazioni del riepilogo a posteriori, e queste si identificano ad esempio negli oggetti dello studio del ministro, che non rimane minimamente impresso, inondato dalla luce che ritaglia l'ufficio, mentre rimangono nella memoria del poliziotto i dettagli: le tazzine. Cioè quegli oggetti che hanno avuto modo di essere maggiormente conservati nella memoria. E allora si spiega la centralità delle situazioni mai concluse appieno, le paure di essere stati dimenticati, la tristezza che deriva dalla solitudine e dal non potersi rivelare, sgravandosi la coscienza, quella sorta di ombra che il capo dei boss coglie: l'insoddisfazione di svolgere una professione odiata, resa ancora più insostenibile per il fatto che si ha la sensazione di essere rimasti soli. E questo è un ottimo pretesto per aprire un gustoso inciso che pone il monologo del vecchio boss al livello di quello di Kurtz in Cuore di Tenebra, sicuramente presente agli autori, che sfruttano la nuova sospensione nella vicenda che ha sospeso la vita del poliziotto, deviandola su un binario morto. E la sensazione di deragliamento viene riassunta con la chiosa: "Una causa superiore mi perdona tutti gli orrori, ma non mi protegge dagli orrori".

Yehia si aggrappa per tutta la vita ad un pezzo di carta, un documento che attesta la sua identità onesta, anzi il suo sacrificio, saltuariamente va a sincerarsi di essere ancora corrispondente alla sua immagine interiore assicurata da quella dichiarazione del ministero, conservata in una cassetta di sicurezza; un documento salvifico, un oggetto che lo può redimere, un testo rivelatore della verità. Ma ormai esso appartiene ad un'altra epoca, fa riferimento a universi e a etiche lontane, fatte di valori diversi e quindi falsificabili nella nuova: il film documenta una vita tradita da una serie di coincidenze.

Eppure il ruolo che gli era stato conferito era stato trasfigurato dal poliziotto, rendendolo metafora di un destino accreditato da lui stesso per poter sopportare la vita: la consapevolezza di far parte di un piano gli consente di inventarsi una legittimazione oscura, un demiurgo che si riserva una vita, il cui disegno oscuro, una volta compiuto, getterà luce su quanto gli è avvenuto. Una traccia di quel disegno permaneva ancora nello scambio di sguardi con il mafioso che lo azzoppava: con la ferma intenzione di andare fino in fondo, perché probabilmente fa parte del piano. Ma fin dall'apparire delle nuove figure del narcotraffico i dubbi crescono sulla validità del disegno. E contemporaneamente aumenta il senso di colpa, scaricato sull'altro da sé, maschera e io oscuro (ma in realtà pubblico) che uccide e "dagli atti di violenza trae piacere". Da questo pasticcio di identità consegue un atteggiamento conflittuale con se stesso: "La morte si odia, ma si rispetta", gli rinfaccia il boss suo amico, e lui invece non la rispetta, perché insoddisfatto di una vita non sua; ma anche consapevole che la morte può riguardare il suo alter ego, non lui che deve ancora vivere. e difatti all'uscita dall'incubo ha una nuova chance per ricostruirsi un nuovo destino.

La danza del ventre, il gineceo, il quartiere… sono costellazione di folklore locale ad uso del pubblico occidentale, ma la graduale soffocazione nel progressivo aumento di note poco africane rende evidente, per assenza, la perdita di identità duplice: dell'individuo - il motivo del racconto - e della società. L'aspetto egiziano riemerge nella rimeditazione della propria storia dal 1968 in avanti e anche in questo approccio si evidenzia l'evoluzione del costume: tutto l'episodio di Farida, la splendida moglie architetta, autonoma, libera, capace di ribellarsi e che ha capito i traffici, non li approva e resiste, ascolta solo musica di interpreti femminili (e neanche casuali, bensì donne con storie particolarmente significative: Billie Holliday, Juliette Greco…), al contrario della sposa bambina, che immediatamente rimane incinta, ha un atteggiamento di sudditanza, è stata scelta dal boss e regalata. Il momento clou risulta il 1981: riunione di boss e salto di qualità nel traffico di droga, ma quello che più si pone in primo piano è la mutazione dei rapporti legata alla "industrializzazione". Prima i boss conoscevano i consumatori uno per uno, esisteva una relazione "umana" differente, e comunque tutto era regolabile a livello locale. Gli autori hanno dunque come intento principale la dimostrazione di quanto sono mutati i valori su cui si fondano i rapporti tra le genti ovunque e non è casuale che si voglia ribadire il fatto che il poliziotto continua a produrre i suoi rapporti scritti, che non sa se vengono letti; la sua è una scrittura legata a canoni superati, a una visione del mondo eroica precedente, ad una dedizione ad un compito che non esiste più e lui non ne è informato e collocare la svolta nel 1981 significa denunciare la perdita del mondo intero, dimentico dei valori meno beluini e alla deriva dall'avvento del reaganismo neoliberista. Il mondo lasciato solo come il poliziotto: senza guida, senza ordini, senza etica e senza senso.

Il film poi ha uno sguardo strabico che per certi versi bada al mercato internazionale, soprattutto nell’impianto filosofico e nella struttura giocata su flasback e commenti da Marlowe esistenzialista, e per altri occhieggia al gusto popolare interno, quindi è costellato di parodie di genere, la cui fattura non adotta nemmeno il registro ironico, ma tenta di ricostruire set e situazioni da b-movie; la più rutilante di queste sequenze è quella lunga permanenza sulla spiaggia, che riassume tutti i temi del film a uso di quel pubblico di gusti meno sofisticati. Dunque si alternano atteggiamenti provocatori della moglie, conferme della mafia stracciona destinata a soccombere, e da ultimo azione con crepitare di pallottole e uccisioni, epilogo di una sequenza, già introdotta con un classico dettaglio su tre figure sospette che si connotano come equivoche e intruse, che si conclude sul dettaglio di un pesce preso alla fiocina, metafora di tutto il film e coronamento retorico della scena di fuoco.

Il senso della sua vita è racchiuso nella consapevolezza dell’ultimo testimone non contemplato dal piano e che un caso fortuito ha messo sulla sua strada: infatti gli incontri con il postino avvengono alla moschea, quasi che si volesse chiamare Dio a testimone della propria buona fede. E probabilmente Allah aveva voluto intrecciare i loro destini, tanto che Mosses, una volta svolta la sua funzione – con scarsi risultati – muore. Inutili tutti gli sforzi perché inutile e fuori dal tempo risulta la causa per cui Yehia si è immolato, al punto da provare nostalgia per "la terra della paura", quella in cui si era inoltrato all’inizio della missione per fare relazioni dall’interno del crimine (un po’ come quelli che dicono di voler cambiare il sistema dall’interno anziché rivoltarglisi contro e si ritrovano a cinquant’anni ridotti a D’Alema qualsiasi), e poi non si era accorto del cambiamento che stava avvenendo, finché non ne esce, poiché aveva preso come unico paradigma del reale la realtà recitata, il ruolo assunto, la figura incarnata e quindi il mondo accettato come vero era la favola, divenuta incubo. Era reamente un boss e non un poliziotto come si era creduto.

Il finale però è salvifico: la riemersione in un mondo sconosciuto gli consente di riavvicinarsi ad un’altra naufraga, Farida.