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Tarzan
Anno: 1999
Regista: Kevin Lima; Chris Buck;
Autore Recensione: Luca Bandirali
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 06-12-1999


E’ tra i migliori titoli della “nouvelle vague” disneyana, questo Tarzan

E’ tra i migliori titoli della "nouvelle vague" disneyana, questo Tarzan. E’ l’effetto di una globalizzazione del processo produttivo? Sappiamo che il film Disney è una macchina imponente che necessita di anni di ideazione, scrittura, lavoro grafico, regia; e sappiamo pure che Tarzan nasce e si sviluppa in tre diversi centri di produzione: Burbank, Parigi e la Florida. Gli studios europei, dopo l’exploit del Gobbo di Notre Dame, si confermano un punto di riferimento importante per le strategie creative della più grande Ditta dei Sogni mai esistita. La trasposizione in disegni animati dell’eroe nato dalla penna di Edgar Rice Burroughs sembra l’avesse in animo Zio Walt in persona: la storia di un uomo cresciuto dalle scimmie, che si muove come gli animali della giungla, che parla la loro lingua, è parsa straordinariamente cinematografica, tanto per la capacità mimetica di Tarzan, quanto per le sue performance atletiche. La scelta di questo cartone animato è quella di tagliare i ponti con le versioni hollywoodiane della saga burroughsiana, col Tarzan tonto e palestrato di Johnny Weissmuller, e di recuperare le suggestioni autentiche del personaggio: allo stesso tempo, gli autori cercano una relazione forte col patrimonio disneyano, nonché col cinema tout-court. Di tutte le possibili "frasi" di un testo ricchissimo ne isoliamo due, particolarmente potenti: il salto temporale dal Tarzan bimbo al Tarzan adulto, e il linguaggio dei segni nell’incontro del protagonista con Jane.

Il primo consiste in una soluzione ardita di raccordo tra due episodi cronologicamente distanti, e che sono differenti per ideazione e realizzazione: dalle note della produzione sappiamo che l’infanzia di Tarzan è stata concepita in rapporto subordinato rispetto alla giovinezza. Il primo blocco narrativo è animato da John Ripa, che ha recepito le indicazioni del guru Glen Keane, responsabile del secondo blocco e in generale delle caratteristiche fisiche e dinamiche del protagonista. Nel raccordo, il bambino viene proiettato verso l’alto (come l’osso di 2001), per poi ripiombare verso il basso da adulto (l’astronave nello stesso film). Due età dell’uomo, come in Kubrick, si susseguono con ellissi consistente: le inquadrature sono associate per identità, l’attenzione dello spettatore viene conseguentemente deviata (per dirla con Casetti) sul nesso di coreferenza. In questo modo il film assolve alla funzione narrativa attivando codici semplici, compresenti in una frase altamente suggestiva.

Nell’incontro fra Tarzan e Jane abbiamo di fronte un problema di significazione che è della diegesi (due personaggi del film tentano di comunicare) e per estensione del linguaggio del film a cartoni animati (un team di disegnatori, tecnici, sceneggiatori, costruiscono un discorso di immagini, suoni e parole che è rivolto allo spettatore): ma l’importanza data al gesto della rappresentazione (i disegni di Jane) sposta il centro del problema sulle immagini. Tanto che, una volta che la fanciulla è tornata nella comunità degli uomini, continua a servirsi del disegno per illustrare inequivocabilmente l’esperienza vissuta. Se il testimone è "colui che sa per aver visto" (Erodoto), la testimonianza (la cosa vista) è tanto più vera quanto riprodotta dal simulacro, ossia dall’immagine. La riflessione sul cinema, poi, viene costantemente ripresa con l’omaggio alla Lanterna Magica e all’archeologia della visione: quel Tarzan che consuma instancabilmente riproduzioni fotografiche è proprio l’uomo moderno; ogni suo sapere, ogni suo conoscere, passa per la mediazione dello sguardo. E ancora più ambizioso ci pare questo film se pensiamo alla sua vocazione di intrattenimento popolare: Disney è un esperanto visuale, qualcosa di prossimo alla cine-lingua, ed anche un gigantesco contenitore di immaginari altrui, saccheggiati, clonati, rivisitati.

Un tratto peculiare del nuovo corso della casa americana (si usa individuarne il principio nella Sirenetta) è riscontrabile, come notava il critico Marcello Garofalo a proposito di Mulan, nella "necessità di esprimere l’idea della specificità del soggetto, prima che il soggetto stesso". Per questo il Gobbo di Notre Dame ci pareva tanto più europeo, e Mulan parzialmente legato al tratto orientale: è il movimento costante dell’arte contemporanea tra globale e tribale, tra universalismo e regionalismo. Di quest’opposizione così attuale, Tarzan potrebbe essere la sintesi dialettica, con in più il pregio assoluto di un rapporto proficuo (non subordinato) con le nuove tecnologie (il sistema digitale detto "Deep Canvas" che permette di lavorare simultaneamente al personaggio e allo scenario, con risultati di profondità inediti).

Resta da toccare un tasto delicato. Rivolgendosi, come detto, ad un pubblico planetario e transgenerazionale, il film Disney genera inevitabilmente diatribe d’ordine etico-politico: ricordiamo a questo proposito le accuse di reazione portate al Re Leone, e di razzismo etnico a Aladdin. La risposta fu Pocahontas, un film volutamente fragile, delicato, il cui finale (la ragazza indiana e l’aitante John Smith si separavano tornando alle rispettive patrie e culture) inaugurava una pericolosa condotta "politicamente corretta". In Tarzan, al ripetersi di una situazione in qualche modo archetipica, la soluzione narrativa (senza nulla voler anticipare allo spettatore) è diversa, all’insegna del rispetto di un codice esclusivamente "interno" al racconto (di un’autolegislazione insomma). E’ proprio questa coerenza interna, che la Disney pratica dagli anni Trenta, a fare di Tarzan un film capace di soddisfare le esigenze (giacché la domanda di immagini è un’esigenza) di qualsiasi tipo di spettatore.