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Arcipelaghi
Anno: 2001
Regista: Giovanni Columbu;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 16-12-2001


Arcipelaghi - Giovanni Columbu

Arcipelaghi

di Giovanni Columbu

fotografia: Fabio Olmi
montaggio: Catherine Catela
scenografia: Thierry Toscan
costumi: Caterina Gatti
musica: Piero Milesi

cast:
Lucia: Pietrina Menneas
Giosué: Giancarlo Lostia
Oreste: Paolo Lostia
Predu ¨s'istranzu¨: Carlo Sannais

Italia, 2001, durata 88'
distribuzione: Istituto Luce


Siamo dalle parti di Marcello Fois, l’ultimo, quello di Dura madre (Einaudi, Torino 2001) per quanto riguarda il plot, ma mancando la visione dall’esterno del commissario di Rimini e consumandosi l’intero intreccio nella cadenza sarda dell’entroterra nuorese, gli echi più evidenti ripropongono l’evidenza di una terra al di fuori del diritto, impersonato da un giudice evidentemente estraneo alla realtà isolana nel suo ruolo, pur essendo assolutamente sardo (sembra un Kossiga meno furbastro e più accondiscendente) e questo gli fa porre domande a imputati e testimoni come se la storia possa venire narrata più volte in modi diversi, una ufficiale e altre ammissibili e più vicine alla realtà isolana. Persino i carabinieri suggeriscono di "svolgere indagini per proprio conto" alla vedova cui è stato sgozzato un figlio undicenne in un alpeggio perché testimone di un abigeato, lo hanno ucciso come una pecora: infatti non vediamo il corpo martoriato – grazie alla regia davvero scarna ed essenziale – ma il corrispondente, quello del cane inquadrato al momento della scoperta.

La costruzione della sceneggiatura poi, sempre memore dell’insegnamento di Fois (ma probabilmente si tratta solo di uno spirito aleggiante sui transfughi dell’isola, visto che il lavoro di Columbu è tratto da Maria Giacobbe, che vive da anni in Danimarca), funziona attraverso salti temporali che non si configurano nemmeno come flashback o forward: i primi piani iniziali non sono solo introduttivi, sono un manifesto programmatico, sono un ponte verso la Sicilia di Ciprì e Maresco, sono tracce lombrosiane che nascondono primitività latente però in ogni anfratto del paese, dove ciascuno – prima di decidere di fare qualcosa – cerca qualche scorciatoia: tocca sempre prima agli altri in una lunga litania di rancori, rimorsi e una teoria di giudizi inespressi, in particolare durante la scenografica processione notturna con lunghe ombre espressioniste: lì si sovrappongono alle litanie le voices over del flusso di coscienza dei penitenti. Quei volti aiutano a rendere plausibile la trama e risultano campionario di espressioni che aleggiano sul racconto dei fatti. E questi atti giudiziari sembrano essere originati da un crimine che consuma tutte le atmosfere del delitto incomprensibile di Fois, pioggia a dirotto e fotoelettriche comprese; in realtà anche quel piano temporale salta, rendendo il tempo una costante invariabile: il vero tempo zero è un altro omicidio, quello del ragazzo, che gradualmente si dipana dapprima quasi come in Rashomon, da punti di vista diversi, riproponendo situazioni e ricostruzioni, e poi – in particolare dal momento in cui la mamma viene indirizzata a farsi giustizia – l’incalzare delle indagini si alterna a quasi grottesche inquadrature dello "straniero", arrogante e rozzo balordo. Non a caso il soprannome lo definisce come estraneo alla comunità: la solita certezza, arroccata a difesa di una società chiusa, che una volta estirpato il cancro proveniente dall’esterno sarebbero state ristabilite l’armonia tra le famiglie fatta di costumi e feste – che fanno capolino tra le pieghe del film – e la correttezza dei rapporti. Proprio l’argomento che travaglia l’ultimo romanzo di Fois, il quale però ha sicuramente più lettori di quanti siano gli spettatori di questo pregevole film, in cui anche la religione viene ritratta nella sua vera espressione in quella realtà, dove un prete non solo non insiste sul perdono, e tantomeno chiede che questo avvenga in piazza, ma rivela il segreto della confessione e pure il peccatore che può fornire l’informazione giusta, collaterale e complice della mentalità, puntello di un sistema che assegna a ciascuno il suo compito con precisione, da sempre, fondandosi su certezze e punti di onore anche feroci, ammirevoli per la loro logica ferrea, ancora praticabili in porzioni di territorio non controllato dal pensiero unico, dove si finisce con il regolare le dispute con il consenso, o per lo meno l’accondiscendenza, dell’intera comunità sulla base di un codice alternativo che il film ha il pregio di far scaturire dal plot senza risultare didascalico come poteva essere Padre padrone.

Ma soprattutto è la figura di questa "dura madre" quella che colpisce maggiormente: macerata dal dolore, ma sommesso; determinata al punto da istigare l’altro figlio alla vendetta, che viene consumata in modo geniale nella sequenza finale che ci rivela finalmente come si sono realmente svolti gli eventi, dopo averci sviati a lungo, ma non per portarci a spasso, quanto per illustrare il mondo in cui possono avvenire quei fatti.