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Radiance
Anno: 1998
Regista: Rachel Perkins;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Australia;
Data inserimento nel database: 08-03-1999


Radiance

Regia: Rachel Perkins
Soggetto: Louis Nowra dalla sua piece omonima del 1993
Fotografia: Warwick Thornton
Montaggio: James Bradley
Scenografia: Sarah Stollman
Costumi: Tess Schofield
Musica: Alistair Jones
Interpreti: Rachel Maza. . .Cressy
Deborah Mailman. . .Nona
Trisha Morton-Thomas. . .Mae
Produttori: Ned Lander, Andy Myer
Produzione: Eclipse Films
Distribuzione:Polygram Filmed Entertainment - (Australasian distributor);
Beyond Films ( International Distributor)
Formato: 35 mm.
Provenienza: Australia
Anno: 1998
Durata: 83'


Radiance

Raramente capita di vedere un film di cui si indovina a tal punto lo sviluppo successivo addirittura attendendosi anche il taglio delle inquadrature, come avviene durante la catarsi del rogo della baracca avita (sull'aria pucciniana che assume un carattere ironico commentando con il "levarsi un fil di fumo" le fiamme che avvolgono la casa); sequenza che introduce al finale sul molo con le ceneri della madre morta, pretesto per riunire le tre presunte sorelle; eppure rimane avvincente perché lungo tutto il film si aggiungono nuovi tasselli che ci fanno scoprire il rapporto tra le tre donne, proponendo ogni volta aspetti utili per arricchire i personaggi e sfaccettare con qualche orpello psicologico gli odi e le sofferenze patite nella saga di una famiglia disastrata dalla figura della morta, una puttana emarginata anche come intrattabile strega dalla comunità. Probabilmente privilegiare la descrizione dell'emarginazione della madre, proporre caratteri diversi di giovani donne ed evocare lo stupro come causa antica della situazione, da cui solo al termine le ragazze si liberano, sono state le caratteristiche un po' ruffiane che sono valse il premio della rassegna torinese del cinema al femminile. Probabilmente Comédia Infantil è un film più affascinante, ma altrettanto squilibrato sul versante della esibizione di culture indigene, poiché come per l'intera produzione della documentarista ventisettenne anche questo plot è ambientato presso una famiglia di origini aborigene e, quel che conta maggiormente, non vi è traccia di didatticismi, forse perché la regista è figlia di un attivista dei diritti degli aborigeni e Rachel ha iniziato nel 1988 nella televisione dei nativi (Imparija Television).

L'isolamento agevola lo sceneggiatore nel creare l'ambiente utile a scatenare le dinamiche dapprima di antico rancore, incomprensione acida poi, complicità femminile e infine ricomposizione dell'armonia tra le tre ragazze sotto nuovi presupposti più naturali a seguito della rivelazione del grande segreto che si gonfia fino a risultare incontenibile: per fortuna non s'innescano i meccanismi bergmaniani, né si seguono le orme di Allen, che rendeva insopportabilmente morboso il quadro descritto. In questo caso si preferisce puntare sul lieto fine e sul completo assorbimento delle elaborazioni di lutto nella composizione finale dei dissapori: forse la solarità del luogo aiutano a superare la crisi scatenata dalla disuguale accezione della figura materna per le tre sorelle, che vissero tre aspetti diversi della personalità della scomparsa. Rimangono passaggi accademici nella elaborazione del plot da parte della regista che inserisce tre situazioni allo specchio (luogo retorico deputato all'introspezione sempre usato in questi casi al limite della analisi interiore nei confronti della figura materna), in ognuna delle quali le tre protagoniste si cambiano d'abito, mascherandosi per sostenere la parte riservata loro allo scopo di tratteggiare in questa sorta di veglia funebre poco rispettosa una componente particolare dell'indole della madre attraverso la rievocazione del loro rapporto con lei.

La componente più apprezzabile è lo spirito talvolta anche comico con il quale si affronta la componente più macabra: ad esempio lo spargimento in casa delle ceneri sul vestito di Cressy, la cantante lirica, recuperate poi dalle tre nel primo degli impegni comuni; altro momento esilarante è la mascherata di Nona, la più giovane (la più attaccata a quella che poi si rivelerà sua nonna anziché madre), addobbata come improbabile Madame Butterfly, quasi canzonando la sorella cantante d'opera. È interessante questo alternarsi improvviso di momenti intensi, macabri, comici, introspettivi, ad altri ancora più eterogenei nei quali si respira un più ampio respiro come quando dislocate sulla spiaggia in posizione quasi rituale le sorelle ascoltano la descrizione della demenza senile della madre a cui ha assistito con pulsioni omicide Mae, la sorella sacrificata dalla fuga della cantante, la cui scelta si rivela essere stata obbligata e molto più sofferta dell'immaginabile. È il momento di maggiore intensità evocativa ed è l'unico in cui la madre viene descritta con tratti sopportabili e quasi con tenerezza, quando l'impulso a strangolarla viene meno "per l'urlo che la rese di nuovo umana". Tutt'e tre le donne sono l'unica forza in dotazione al film sia come interpreti sia come personaggi, ognuna con una crescita interiore che le muterà completamente, soprattutto la più giovane che dismette non solo i rapporti parentali consolidati, ma anche la propria natura: si nota quanto ci fosse di artificioso e infantile nel suo abbandonarsi alle leggende con cui alimentava i propri miti fallaci, che la rendevano inadeguata e fastidiosa, e quindi come la nuova collocazione nell'ambito familiare (un gineceo), dopo il definitivo rito officiato in solitudine sull'isola, sia più naturale del folletto che credeva al Black Prince, vaneggiato come padre. Di nuovo il messaggio femminista è lapidario: nessuna figura maschile trova diritto di cittadinanza nel film se non assolutamente negativa e questa è la condizione ottimale per il ritrovato equilibrio dei tre personaggi.