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Quando eravamo re - When we were kings
Anno: 1996
Regista: Leon Gast;
Autore Recensione: Sonia Del Secco
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 05-11-1997


Non pensiate di non poterlo reggere perché avete il cuore debole e la boxe non vi è mai piaciuta, perché non si tratta di un film per amanti della disciplina. È sì il documentario su Cassius Clay alias Mohamed Ali o meglio sull'incontro che gli valse il titolo mondiale di pesi massimi contro George Foreman, ma è soprattutto uno splendido documentario su un incontro di popoli: quello nero d'America e quello nero d'Africa.

È il film più spettacolarmente corale che io abbia visto in questi ultimi tre mesi, dopo "Bus in viaggio", che è giustamente rimasto nelle sale appena qualche giorno per la gioia di chi affascinato da una prima visione avrebbe volentieri iterato (non è un caso che proprio Spike Lee apra e chiuda il film con le sue lucide riflessioni).

È paradossalmente un film pacifico e politico insieme, pacifico a dispetto dello sport che lo rappresenta, politico a dispetto di chi considera l'attività sportiva tout court come mero brutale teatro di bestialità.

Ma soprattutto è un film nero. Nero, come la notte senza luna. È percepibile la negritudine, è sensibile l'essenza africana, la fratellanza di un popolo che sta riscoprendo un passo alla volta e con una vera e propria Passione le proprie origini. Quando esci dalla sala ti senti un fratello e avresti una gran voglia di trovare tanta della forza che hai appena guardato nelle spalle lucide di Ali durante l'incontro, che hai appena ascoltato nelle canzoni che accompagnavano le immagini, nel grido ritmico di "Ali Boma Ye!" come nel sospiro incantatore di Miriam Makeba e nella sensualità al calor bianco di James Brown, ben affiancata dallo straordinario. È un film caldo come il sole d'Africa, profondamente amabile anche da chi non sapeva molto del mito di Mohamed Ali, per la poesia di certe sue parole, semplici: "Fratello, sii qualcuno...".

È un documentario sul fermento di quegli anni, a cavallo tra i sessanta e i settanta, in cui ciascuno di noi, nero o bianco, avrebbe voluto essere. Cinemah vi consiglia di non perderlo. E soprattutto è un film che merita di essere guardato per l'entusiasmo che trasmette, per la voglia di vincere e per l'autostima che infonde, ora che Ali non è più l'Ali di allora, ma che come allora combatte. Sembra sbeffeggiare di nuovo il suo avversario ben più temibile di Foreman, presentandosi alle Olimpiadi in tutto il suo orgoglio, quello stesso che negli anni settanta gli fece dire nel suo inglese semplice: "Nessuno dei Vietcong mi ha mai chiamato sporco negro!".

All'uscita si è discusso sull'intelligenza e sulla cultura, sulla coscienza degli atti di protesta di Mohamed Ali, sul carisma che si eredita o si conquista, sulla ingenuità, sulla poesia, si è discusso della nostra carenza di negritudine, del dominio dei bianchi, del concetto di unione e di pace. Non si è parlato, ora che ci penso, di boxe.