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Pünktchen und Anton
Anno: 1998
Regista: Caroline Link;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Germania;
Data inserimento nel database: 15-03-2000


Pünktchen und Anton

Pünchten und Anton

di Caroline Link, Germania, 1998, 105´

7° Festival Internazionale

Cinema delle Donne
Torino marzo 2000

Prodotto da Buena Vista, non fa nulla per differenziarsi dal canone disneyano. I buoni sentimenti trovano ampia cittadinanza in una pellicola che, sottolineando la differenza di ceto, non fa nulla per mostrarne l’inaccettabile ingiustizia, limitandosi a generiche e banali rimostranze retoriche di fronte ai più inaccettabili e patenti atteggiamenti classisti e coloniali: la faccia caramellosa del buonismo. Infatti risulta ridicolo e insultante anche l’accenno che si è voluto introdurre al Burkina Faso e all’Africa tutta, apparentemente seguendo un criterio di emancipazione, in realtà ancora più coloniale nel momento stesso che ne banalizza le emergenze a livello di cinemino parrocchiale di quarant'anni fa: le videocartoline spedite dalla madre di Pünktchen sono quanto di più colonialista si possa immaginare con stuoli di volti africani e la bionda bianca dama di carità in posa in mezzo. Potrebbe sembrare ironico, anche per la costante accusa rivolta alla madre assente per pelosa solidarietà di essere motivata soltanto dalla vanità, ma il dubbio non riesce ad insinuarsi in seguito alla maniera adottata per mettere in scena le mirabolanti avventure dei due ragazzini. A cominciare proprio dai siparietti seriosi, caricati di molta retorica - come in molte opere targate Disney si staccano dal resto del film adottando il tono pomposamente didattico -, per proseguire con le zuffe a scuola con i cattivi rappresentati nel loro prototipo, ricalcando gli stilemi del cinema per l’infanzia (o dei telefilm europei sui bambini).

Addirittura si può cominciare ad inorridire dal titolo di testa, preconizzando cosa si nasconde dietro al parco dei divertimenti con i due giovani (e molto espressivi) amici che si salutano perché il povero deve andare a lavorare in gelateria al posto della madre – malata e abbandonata dal padre fedifrago – come se fosse "il piccolo scrivano fiorentino" (e come lui dorme a scuola). Di luogo comune in luogo comune il massimo della irritazione si raggiunge con una terribile danza inscenata senza vergogna dalla precettrice (ovviamente francese) e dalla cuoca, che sembrano la versione teutonica di Baloo in Il Mistero della giungla; e dai ruoli si può capire di fronte a quale ignobile marchingegno tagliato con l’accetta siamo costretti: basti dire che la signorina è una ragazza dedita al collezionismo di flirt e la materna addetta alle cucine è una corpulenta macchietta di tutte le cuoche del cinema. Il colmo del ridicolo parzialmente involontario si raggiunge invece con la sventata rapina, ovviamente tentata dall’immigrato italiano, mentre la ciliegina si assapora con l’estremo gesto di nobile slancio filiale di Anton lanciato alla ricerca del padre, che non conosce, guidando (a 11 anni) un furgone da gelataio: riprese rigorosamente disneyane ancora più approssimative di Un maggiolino tutto matto, con appena accennate riprese dall’alto e l’inevitabile fine in un campo accogliente e successivo ricongiungimento con la madre.

Come si sarà capito si tratta di uno di quei film che fanno del male non solo agli spettatori o al cinema europeo, ma soprattutto alle manifestazioni che lo ospitano, che a causa del badget e della sua collocazione estranea ai circuiti deve accontentarsi delle pellicole a disposizione, incorrendo talvolta in proposte imbarazzanti.