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Orphans
Anno: 1997
Regista: Peter Mullan;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Scozia;
Data inserimento nel database: 03-05-1999


Orphans
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ORPHANS


Regia: Peter Mullan
Soggetto: Peter Mullan
Fotografia: Grant Cameron
Montaggio: Petar Putnikovic
Musica:Graig Armstrong
Produzione: Antonine Films
Formato: 35 mm.
Provenienza: Scozia
Anno: 1997
Durata: 97'
Douglas Henshall ... Michael
Gary Lewis ... Thomas
Stephen Cole...John
Frank Gallagher ...Tanga
Alex Norton ...Hanson
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Un silenzio ferale, rotto neanche da una lontana musica, né da un rumore fuori campo disturbato, è il protagonista principale del raccoglimento funebre dei quattro orfani Flynn, al cospetto della bara della madre reputata da tutti una donna eccellente, che li aveva allevati da sola, vista la prematura morte del padre, producendo nei figli legami anche morbosi con il suo ricordo. Il rito della ciocca di capelli è una dimostrazione della velleità di sentirsi famiglia, più volte ripetuta lungo il film nei momenti in cui appare meno evidente, poi la mdp comincia a muoversi in una panoramica verso sinistra che compie 360° sotto ad una voce suadente: "Sssh. Non è niente: non c'è motivo di aver paura", andando a rivelare la protettiva madre nel passato della memoria collettiva dei quattro giovani, per concludersi di nuovo sui fratelli affranti.

Da quel momento s'inizia una diaspora durante la quale gli orfani elaboreranno il proprio lutto per proprio conto a cominciare dal pub, dove il devoto Thomas si esibisce in un karaoke in omaggio alla madre, che scatena la rissa durante la quale Michael, il più sensibile ed equilibrato, viene accoltellato: la ferita condizionerà la sua notte fino al bagno catartico nel fiume, che sostituisce il risarcimento, la vera ossessione degli individui, oppressi dalla sensazione di meritare finalmente un riscatto dalla intima miseria di cui è intrisa la loro esistenza e dal vuoto lasciato dalla perdita della madre, momento di maggiore ferimento della sensibilità di tutti gli individui, ciascuno ferito per proprio conto. Il pub assurge a luogo in cui si socializza tutto: nascite e lutti, ma in modo malato e non riuscendo a scalfire l'indifferenza al punto che si possono sequestrare per motivi futili avventori, che si riveleranno poi disumani mostri. E questo spinge a meditare vendette atroci: "Sta arrivando la tempesta", emotiva e meteorologica, visto che la chiesa verrà scoperchiata dal vento, producendo un effetto di livida sofferenza e di collasso di un sistema di valori, da ricostruire completamente: il disastro trova nei cataclismi climatici una metafora molto efficace per la rabbia e lo spaesamento che attanaglia i ragazzi; infatti tutto precipita da quando nella chiesa comincia a gocciolare sulla Bibbia e Thomas raccoglie il gocciolio nel calice.

Egli è ossessivo nella dedizione mistica e cerca conforto nel più classico dei lenimenti: la religione, aggrappandosi alle promesse, da lui stesso formulate per crearsi punti di riferimento nel vuoto della perdita; John è il più attratto dalla scorciatoia data dall'individuazione del responsabile del proprio malessere in un antagonista in carne ed ossa, figlio dell'insensibilità (ben rappresentata nell'episodio del luna park con i ragazzini animati da perfidia e poi terrorizzati dal fucile, mezzo per fabbricarsi il rispetto), riesce a capire da solo l'orrore che stava per scatenare, tanto da trattenersi dall'accoltellare Duncan, il rivale eletto a vittima sacrificale; Sheila ricerca a sua volta un modo autonomo di trovare pace: il suo compito è il più gravoso, dato l'handicap, ma trova l'unica famiglia disponibile del film. Non è chiaro se si sceglie di mostrare quella casa solidale con lo scopo di dare una speranza, o se è utile per evidenziare la distanza con tutti gli altri mostruosi e indifferenti, pronti a scatenare irose recrudescenze incontrollabili per delle inezie.

L'esplosione di violenza non solo psicologica è oppressiva e la descrizione delle umane miserie britanniche ha il pregio di non essere così insistente e strappalacrime, come ci hanno abituato gli ultimi film di Loach, My name is Joe in primis o peggio i lavori di Leigh, invece Mullan ritaglia spazi per tragiche macchiette di diseredati, la cui ricerca di riscatto ha oltrepassato il limite della tollerabilità e del contenimento nei confini della convivenza: tutti gli altri sono oppressori e la violenza è dunque ammissibile, salvo diventare gustosi sarcasmi: "Ho visto rapinare negozi senza soldi con armi senza munizioni". È solo comunque la punta di un iceberg: tutti sono mostri di egoismo e grettezza, dalla vecchia che impedisce il passaggio sul proprio scivolo alla brutalità dei clienti delle consegne del ristorante cinese. Ma rocambolescamente i fratelli raggiungono autonomamente la chiesa del funerale, ciascuno corazzato per superare la perdita della madre.

L'impressionante cupezza del silenzio iniziale si compone in modo originale (il ristorante indiano) nel luogo più ovvio (la tomba) con la ritrovata unità della squinternata famiglia attraversata dalla bufera: un ennesimo tocco di leggerezza dopo il divertente ridimensionamento di ognuno dei protagonisti, che ritrovano umanità riconoscendo i propri limiti: Michael verbalizza finalmente il cruccio ("Voglio la mia mamma"), Thomas non riesce a portare a spalle la bara, Sheila cade nel bagno e John non può sparare sul bambino. Sono diventati umani.

L'humour nero capace di sgorgare spontaneamente in una certa anima della società scozzese sembra aver trovato un altro valido cantore proprio in quel Joe (lo stesso Peter Mullan, ora regista), che già sapeva intravedere raggi di sole nel culo portentoso dell'assistente sociale!