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O Viajante
Anno: 1998
Regista: Paulo Cesar Saraceni;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Brasile;
Data inserimento nel database: 22-11-1999


O Viajante

O VIAJANTE


Regia e sceneggiatura: Paulo César Saraceni
Soggetto: Lucio Cardoso
Fotografia: Mario Carneiro
Montaggio: Maria Elisa Freire
Scenografia: Ferdy Carneiro
Musica: Julio Mourao, Tom Jobim, Sergio Saraceni
Interpreti: Marilia Pera, Jairo Matos, Nelson Dantas, Leandra Leal, Milton Nascimento, Fausto Wolff
Produttore: Anna Maria Nascimento e silva.
Produzione e vendita all'estero:Shater Producoes Artisticas Ltda, Abade Ramos 78/202, Jardim Botanico, 24-461-090 Rio de Janeiro, Brazil,e-mail shaterfst.com.br
Provenienza: Brasile
Anno: 1998
Durata: 1 hr. 57 min.





Il tema passionale e la collocazione temporale negli anni '50 rappresentano un cliché: è l'unico di un film che impone allo spettatore ritmi di fruizione rari e una particolarissima struttura che scorrazza lungo l'intero percorso del racconto proponendone stralci che non seguono la sequenzialità cronologica, pur mantenendo intatta la facoltà di ricostruire l'intreccio univocamente. Questo consente di assaporare meglio le sequenze, isolandone gli aspetti più affascinanti; ed ognuno dei quadri in cui si scompone il processo di ricostruzione del puzzle lascia affiorare: aspetti, oggetti (la bottiglia di liquore, panacea per molte occasioni), colori (le rose rosse sono il "rosso passione"), singoli elementi che informano di sé il tassello isolato dal contesto, eppure sostanziale per la ricostruzione del tutto. Inoltre sfruttando adeguatamente la dislocazione si colgono più facilmente i costanti ritorni di particolari, personaggi, situazioni e ... canzoni; infatti il suonatore di organetto che all'inizio le propone di tentare la sorte riappare al momento della festa e racchiude in una paradossale cornice il film che grazie al suo impianto si dipana in totale assenza di confini strutturali e dunque solo alla fine, composto l'intreccio nei più infimi dettagli, si dà pure una cornice. La festa peraltro non è l'epilogo cronologico, perché abbiamo assistito alle morti di alcuni protagonisti della processione gioiosa, ma è il centro su cui converge il racconto, ciò che lo mantiene compatto e da cui s'irradiano i dettagli come un lancio di palloncini rossi che da momento di festa diventano esalazione dell'anima della ragazzina, vittima sacrificale della passione irrefrenabile e scatenata dall'arrivo di un fattore estraneo al sonnacchioso paesino del Minas Gerais: il commesso viaggiatore del titolo. Proprio la concrezione della fiera finale disloca la materia, destrutturandola, per causare nello spettatore uno spaesamento derivante dalle presenze di personaggi alla cui morte si è già assistito, da cause descritte dopo gli effetti.
Eccezionale l'uso di colori, dissolvenze, dialoghi, sempre frontali (compongono la maggioranza delle sequenze): la precisione con cui mostra il gesto che scandaglia i due omicidi e lo struggimento dei carnefici è unico: sceglie di non operare ellissi, anzi i quattro colpi di scure che uccidono Sinhà, la ragazzina, ci vengono mostrati integralmente, dopodiché il suo vestito si trasforma, come era avvenuto per quello dell'altra desiderante, Ana; il lancio della carrozzina dalla rupe (Tarpea?) è preparato dalla sequenza di ascesa alla montagna costellata di scheletri prolettici e dal roteare di avvoltoi che attaccano la reproba come gli uccelli di Hitchcock, ma soprattutto nel rimorso occuperanno la sua mente devastata dallo struggimento per l'azione fatta e il desiderio carnale che brucia l'animo. Eppure non sono i due gesti omicidi a rappresentare il fulcro del film (il secondo dei due viene ricostruito anche dal punto di vista dell'assassino e della rivale, conferendovi una purezza catartica che assolve i desideri dei tre, individuando il responsabile nell'estraneo, il viajante): i protagonisti sono la passione, il silenzio di Dio, le frustrazioni di origine diversa e con un solo destino, la presenza della morte nei paramenti del costruttore di bare, addirittura la presenza della morte già all'atto del nascimiento di Zeca, lo spastico, montato subito dopo la sequenza del suo omicidio, seguito genialmente dal corteo funebre del padre comunista: una presenza quella della morte che s'insinua nell'intero film. Al momento della liberazione da figlio e marito, Ana sposta l'attenzione sul proprio corpo (anche lo specchio non restituisce più le immagini dei solitari bicchierini di liquore, quanto gli abbracci con l'amante) e anche il regista monta le sequenze in cui le varie situazioni restituiscono un parossistico bisogno di occuparsi delle pulsioni sessuali di ciascuno dei coinvolti, chiamati a partecipare alla tragedia senza averlo scelto.

Lo struggimento di Doña Ana coinvolge la sua esistenza, le sue pulsioni, ma si esprime anche sull'esistenza di Dio: "A lui non importa". Non è toccato dalla sua sofferenza di dover accudire un figlio spastico dopo essere rimasta vedova di un militante comunista, ucciso per ragioni politiche. Una chiave di volta attorno a cui ruota l'evoluzione del personaggio di Ana si esplicita proprio in una piroetta alla fine della quale appare vestita di un abito rosso, che segnala la sua decisione di occuparsi finalmente di se stessa
L'irrequietezza di Sinhà, la ragazzina sacrificata, sorge direttamente dalla bucolica musica che la introduce a quel mondo di sordidi desideri di cui lei diventa il richiamo in virtù della sua purezza ingenua, che viene messa al centro dell'ossessione di Juca, l'artigiano di pompe funebri ("Faccio bare perché la morte è uguale per tutti") che la ucciderà quasi con il suo consenso, di Rafael, il viaggiatore che la violerà, di Ana, che li spia: Sinhà è natura che si nasconde sempre nelle ninfette, espressa benissimo nella doccia notturna: quella nudità scatenerà la pulsione omicida, di cui ella si rende conto e anzi istigherà, accogliendola come sublime godimento. Sorriderà morendo infatti ripetendo la sovrimpressione dell'uccello rosso con cui cercava una sintonia, individuando in lui l'essenza della sua concezione dell'amore, in un'altra sequenza di rabbia già anticipata con la liberazione dei pennuti in gabbia, riproposta con la liberazione dei palloncini; infantile e efficace metafora di vulnerabilità ed effimerità che trova sfogo definitivo.
Motivo questo di contatto tra le due donne nelle parole di Rafael, durante la seduzione di Ana: "Non è l'infanzia che ti è mancata, ma la maturità che perdi: vuoi vivere e hai paura". Giustamente perché la passione sarà un fiume che travolgerà tutti i protagonisti, nonostante la frammentazione che si affida ad un esile filo che inanella i ricordi degli eventi..


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