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No Man's Land
Anno: 2001
Regista: Danis Tanovic;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Bosnia; Belgio;
Data inserimento nel database: 14-10-2001


No Man's Land

 

regia e sceneggiatura
Danis Tanovic

fotografia
Walther van der Ende
montaggio
Francesca Calvelli
costumi
Zvonka Makuc
suono
Henri Morelle
produzione:
Counihan Villiers Productions, Fabrica, Man's Film, Noè Prod., Studio Maj/Casablanca provenienza: Belgio, Bosnia, Francia, Italia, Slovenia, GB
anno: 2001
durata: 98'
distribuzione: 01
premio: miglior sceneggiatura Cannes 2001

Arizona 2: "Non fare nulla è già una scelta"… che premia Kofi Annan.

No Man's Land


interpreti:
Branko Djuric....... Ciki
Rene Bitorajac..... Nino
Filip Sovagovic.... Cere
Simon Callow....... Soft
Katrin Cartlidge.... Jane

 

 




Tra farsa e tragedia, ma quella greca, anzi peggio da trincea; un immaginario epico e sofferente sporcato da povere esistenze disperate, defraudate anche di quella dignità a cui pure nelle più dolorose vicende il mondo mitico riusciva a conferire onore. Ora c’è solo disincanto, tristezza e spaesamento nella "terra di nessuno", luogo dove è ancora più ridicolo morire. Questo è il mondo degli uomini gettati nella discarica bellica, per fortuna il baluardo dell’Onu di Kofi Annan incamera premi, rinverdendo la tradizione che ha visto assegnare a degni rappresentanti della pace mondiale il nobel. Però bisognava colmare una lacuna: Kissinger, salvatore del mondo dal comunismo di Allende e inventore delle devote dittature sudamericane ha avuto il tributo che si merita da decine di pellicole su missing e desaparecidos; Sadat è omaggiato a vent’anni dalla morte da un film che spopola nei paesi arabi e Peres, ambiguo e disponibile a ogni trattativa inconcludente, trova uno specchio dei suoi brillanti successi diplomatici nella coscienza interna alla parte più sana della società israeliana, portata sugli schermi da Gitai... Ma l’olocausto ruandese non troverà mai un regista e il mezzo milione di ragazzini uccisi dall’embargo ai danni dell’Iraq non ha speranze di far piangere i sensibili europei con cappottini rossi marca Spielberg; non parliamo dei morti in Indonesia forse raccontati da qualche gamelon locale, ma con nessuna possibilità di trovare spazio nella memoria cinematografica occidentale, nella quale non riesce a farsi strada – in assenza di un nuovo Yilmaz Güney – nemmeno la coscienza del genocidio kurdo per il quale l’Onu non fa nulla esattamente come per le stragi algerine o la vergogna delle migliaia di affogati nel tentativo di emigrare (solo un nuovo Jacques Cousteau potrà narrare dal profondo degli abissi l’ultimo viaggio di tanti clandestini: Titanic 2: la fortezza di Schengen). Per fortuna le gesta di Kofi Annan trovano una degna eco nei balcani, terra di sane tradizioni cinematografiche: No Man’s Land è il film che probabilmente il Norvegian Nobel Committee ha visionato a lungo prima di decidere di assegnare il premio miliardario a questa organizzazione con le pezze sul culo, perché gli Usa non versano le quote se non in minima parte prima di farsi avvallare l’invio di tonnellate di bombe da etichettare come aiuto umanitario in forma chirurgica.

E farsa e tragedia si alternano anche nella pellicola di Danis Tanovic: geniale il detour che rispedisce in Ruanda lo spettatore che sta assistendo a una commedia dell’assurdo, attribuendo ai protagonisti di quell’intreccio di odio etnico secolare le stesse valutazioni che nella sala stiamo pensando di loro, ma loro stanno commentando lo sterminio di tutsi ("Che casino in Ruanda!"); quel commento riassume il film, conferendo un brivido umoristico al dramma, spostando altrove l’orrore e trattenendo lì solo lo stupore per eventi incomprensibili, come se quelli che si stanno vivendo fossero cristallini: c’è in quella frase il provincialismo e il pressappochismo del mondo, concentrato solo sulle questioni vicine e mai altrettanto solerte per le situazioni lontane, sbrigate con un commento che non significa nulla, fatico, inutile. E incapace di cogliere il proprio inadeguato essere fuori luogo. Ma anche la tragedia trova i suoi spazi: una specie di quinta teatrale da cui non si riuscirà ad uscire è quella trincea, resa ancora più palesemente palcoscenico quando inscenano la pantomima senza divise per attirare l’attenzione del "mondo esterno", incapace di portare aiuto. Quale più precisa metafora del consesso umano e del suo organismo più prestigioso, l’Onu? Infatti i "puffi" sono quegli stessi che diedero una mano ai cetnici a Sebrenica nel rastrellamento degli uomini da spedire in fosse comuni. Nel film le pastoie burocratiche impediscono di dipanare la matassa, anzi risolvono definitivamente il destino dei tre malcapitati, per concludersi su una plongée eccezionale per la capacità di comunicare lo strazio della solitudine del "superstite", ormai destinato a una morte solitaria dentro una trincea svuotata di senso e riempita di veti e interessi inconfessabili proprio a causa della assoluta trasparenza mediatica.

Sempre, il flusso va dalla farsa verso la tragedia, ogni volta apparentemente stemperandosi in qualche temporaneo slancio di comprensione, di nuovo abortito dall’insensatezza dell’odio: ancora la preziosità di questa prassi si coglie con evidenza nella disputa-apologo su quale fazione abbia voluto la guerra: un momento altamente dialettico, risolto allo stesso modo – ma a ruoli invertiti – in due scene contigue e diverse: ha ragione chi ha il fucile in mano e dunque si giunge alla conclusione paradossale che l’inerme è per assioma chi ha voluto la guerra per sua stessa spontanea ammissione, sotto la minaccia delle armi. L’illogicità degli argomenti accampati lungo tutto il film sussume l’andamento sarcastico come basso continuo, ma si è già cautelata all’inizio dal venire rubricata sotto l’etichetta di puro cinema comico, che avrebbe sminuito la denuncia; la prima sequenza del film pone in chiaro il presupposto di partenza e carica il resto della pellicola di una consapevolezza agghiacciante. Tutto questo è spaventosamente autentico: le pallottole che fischiano attorno al cambio dei miliziani bosniaci e penetrano i corpi lo fanno con un realismo impressionante: il prologo non lascia spazio alla rappresentazione, la nebbia, gli alberi, l’alba sono elementi naturali in cui si immerge la tragedia diventando iperrealistica; quello che viene dopo – per quanto mantenuto su toni di rappresentazione didascalica (mai pedante) e divulgativa, si tratta pur sempre di una commedia sarcastica – non può prescindere dalla impressione di verità tratta dalla paura nel buio con dominanti blu della notte fotografica e dal terrore del risveglio con quella limpida luce mattutina che gradualmente si alza all’orizzonte decretando la morte in quella ineludibile osservazione del segno di luce solare che avanza inarrestabile fino a svelare porzioni sempre più ampie di terreno (e le batterie nemiche), con l’orrore che è legato a questa rivelazione. Ciò che viene dopo è degenerazione di quella semplice verità riguardo a cosa sia l’uso delle armi palesata da quel raggio di luce che scaccia le tenebre, e il registro comico serve solo a rendere più amara l’impotenza della ragione, sancita dall’apodittico e contraddittorio "Inutile, con voi non si può parlare", che ribalta la propria chiusura sull’antagonista per rendere ancora più impraticabile il negoziato, perché "noi non siamo come loro", senza accorgersi che si tende a innescare i medesimi meccanismi (entrambi mettono i fucili ad armacollo piuttosto che posarli). E quando per una volta entrambi i contendenti chiedono la stessa cosa, l’intervento dell’inadeguato Unprofor non può che essere deleterio anche quando persegue la procedura abituale di non intervenire, persino se uno zelante francese pone i comandanti di fronte a un intervento inevitabile, alla fine si dimostra il fallimento dell’Onu attraverso le immagini delle televisioni che rientrano senza aver documentato realmente l’accaduto e l’angoscia di chi rimane da solo con una bomba sotto il culo. Le immagini dunque perdono valenza: dopo le prime sequenze enormemente realistiche che documentano quanto sia facile e terrificante morire, le altre inquadrature che si ricordano sono di impianto teatrale nel microcosmo della trincea in cui nemici giurati sono costretti a convivere e rimangono impresse quelle più comiche che offuscano gli spezzoni di video-news dei giornalisti intenti al loro safari fotografico, dove le belve sono uomini comuni; ma la vera protagonista del film è la parola, che può ancora emozionare, insinuare dubbi, instillare speranze persino a un uomo-nazione con una bomba sotto il culo.

Quando ogni parola viene meno, scende l’oscurità e l’illusione non è nemmeno più l’estrema battuta di spirito per sopportare l’assurdità: non c’è più spazio nemmeno per il sarcasmo e riprende il sopravvento la denuncia amara contro l’alto funzionario dell’Onu, che trae un insegnamento dall’episodio: "Mai ficcare il naso in affari che non ci riguardano". Una considerazione di cui l’attuale segretario dell’Onu ha fatto tesoro.
Greetings, Mr. Annan.