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Little Senegal
Anno: 2000
Regista: Rachid Bouchareb;
Autore Recensione: chiara daccò
Provenienza: Algeria/Senegal/USA;
Data inserimento nel database: 14-05-2001


Little senegal

Un piccolo Senegal che tanto piccolo non è se i confini del Senegal si trovano anche in America, nella terra obbligata di deportazione degli schiavi (altro che Far West e terra di conquista) perché l’Africa riesce a vedere altrimenti l’altro, a incorporare in modo vitale il passato per crearne qualcosa di inaspettato per noi: invece che non accettare questa tremenda realtà cerca di conoscerla e di vederla nella sua sofferenza come una possibilità di ritrovare chi o cosa si è perso. Insomma il festival che ha premiato questo film e Lumumba mi pare segni proprio questa necessità di non dimenticare la storia e le sue crudeltà ma di viverla ancora fino in fondo per renderla vitale oggi, non per rimediare ma per fare ciò che non ci si aspetta che si faccia, capire e creare del nuovo, senza che noi si possa anche colonizzare i pensieri e le azioni e per capire che come si spostano merci e ideologie così non capita per le persone. Un film girato bene, patinato, ricco e curato, come Lumumba del resto, e un po’ furbetto, godibile e smaliziato, e se il messaggio potrebbe essere "siamo tutti fratelli nel mondo ma fratelli allontanati dalla storia", tuttavia il film non lo dice in modo scontato ma si avvicina alla diaspora africana in un ottica insolita e apparentemente leggera, ripropone il discorso sul panafricanismo e la negritude ma senza orpelli mitologici e sogni di origini pure e da riportare in vita.

Il senegalese Alloune (uno splendido Sotigui Kouyaté, attore feticcio di Peter Brook), esperto storico dello schiavismo e guida commossa e commovente sull’isola di Goree, parte alla ricerca dei suoi parenti deportati. Dopo aver raccontato la partenza da Goree per trent’anni decide di andare in cerca della fine di questa storia, il nuovo radicamento al contrario, una delle possibilità delle esistenza che a noi non è stata data né inflitta (anche per noi, che solo per caso siamo nati in Europa, ora e con queste persone). Finirà ad Harlem, New York, dove con la sua eleganza di modi e di linguaggio e con la sua gentilezza riuscirà a ricostruire di archivio in archivio la storia dei suoi parenti d’America, fino a incontrare la scorbutica biscugina Ida. In un delicato gioco di avvicinamento il nostro bellissimo protagonista si fa assumere come sorvegliante nel baracchino della cugina e le si avvicina talmente fino ad innamorarsene, senza averle mai detto che lui viene da quel passato che a lei è stato negato; e le scene di loro in giro per la città o in giro per le stanze di case e alberghi sono dolcissime e accoglienti, anche se la felicità lieve non dura che un giorno e per esistere deve dimenticarsi della realtà in America come di quella lasciata in Senegal.

Quasi un documentario etnografico, la visione di un etnologo naturale africano in U.S.A. che però patisce insieme agli osservati e non li osserva per conoscerli ma per unirsi a loro, e insieme un antropologo della città, la città come personaggio benvoluto o detestato, dal quale dipendono i personaggi umani che al contempo contribuiscono a dare un volto alla città. E il volto della città è mostrato schematicamente nelle diseguaglianze e i dissidi della Harlem di oggi laddove lo spirito americano e quello africano si mischiano per dare il peggio; c’è un nipote senegalese emigrato che riproduce stupidi schematismi maschilisti con la giovane fidanzata (schiavizzandola quasi nel ruolo di donna di casa e venditrice di strada che non può studiare) e che alla fine morirà stupidamente; e c’è il giovane maghrebino che cerca di sposare una cittadina americana, per amor di paradosso nera, per avere la cittadinanza, che dopo aver finto l’amore si scopre innamorato. Non è che loro siano buoni e noi cattivi, solo che perché mai dovremmo avere sempre e solo il peggio di tutte le culture? Quello che si lascia vedere sono i giochi di ruolo obbligati e le piccolezze quotidiane di quest’America che non vuole riconoscere le sue radici africane e l’apporto fondamentale delle altre culture, dove i neri si indispettiscono con i più neri chiamandoli sporchi negri.

All’affetto che nasce tra i due protagonisti, dal loro vagare alla ricerca di una nipote incinta e perduta e dall’avvicinarsi di due solitudini, verrà data una possibilità di durare con la nascita della bisnipote, da educare insieme nella possibilità di unire antico e moderno. Invece Alloune tornerà a casa solo, distrutto dalla cruda realtà americana, dopo avere raccontato ad una commossa Ida la loro storia familiare e di tutto un popolo, un ricordo di un passato che Ida non credeva suo ma invece ora continuerà a vivere in lei. E Ida non tornerà a casa con lui, perché non si rimedia ad un allontanamento forzato con il movimento opposto di avvicinamento libero. Anche se andare a casa è proprio quello che è stato impedito agli schiavi, non basterà il ritorno alla purezza delle origini per cancellare la storia, Libreville e le Liberia, così come i movimenti del ritorno alla patria non hanno messo in pratica utopie realizzate.

Sarà anche vero che non serve a nulla sapere qualcosa dell’Africa, come dice la ragazza nera americana che fa studiare il giovane aspirante cittadino americano, come pure è vero che non serve essere bianchi o neri ma solo verdi di soldi come dice in maniera imbarazzante Ida (e in effetti il razzismo è intrinsecamente legato alla ricchezza, del ricco straniero non vedi che i soldi e lui non chiede che scambi commerciali, il povero è straniero invece in quanto chiede riconoscimento e diritti) ma solo per chi non conosce comunque nulla all’infuori di sé e lasciamo per noi la bellezza dell’entrare nel mondo altrui e di lasciar entrare l’altro nel nostro piccolo mondo.

E Alloune che torna alla fine da solo a Goree ha lasciato una traccia, ha smosso il rimosso americano dello schiavismo, ha passato la porta dell’isola che si attraversava per essere deportati e che dobbiamo attraversare anche noi prima di ogni viaggio. Se un regista francese nato in Magrbeh getta un ponte verso la cultura afroamericana, sia chiaro a tutti che non è più possibile che ognuno si occupi dei suoi colonialismi ma che le radici sono dappertutto e in nessun luogo e forse decolonizzarsi servirebbe anche a noi, per vivere poi in un nuovo e produttivo sradicamento.