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Le Fabuleux destin d'Amélie Poulain
Anno: 2001
Regista: Jean-Pierre Jeunet;
Autore Recensione: clarissa
Provenienza: Francia;
Data inserimento nel database: 29-07-2001


L’amore a parigi

Le Fabuleux Destin d'Amélie Poulain

Regia: Jean-Pierre Jeunet

Sceneggiatura: Jean-Pierre Jeunet, Guillaume Laurant

Interpreti: Audrey Tautou, Mathieu Kassovitz, Rufus, Yolande Moreau, Isabelle Nanty, Dominique Pinon, Jamel Debbouze, Maurice Bénichou, Serge Merlin, Claude Perron, Claire Maurier, Michel Robin.

Direttore Fotografia: Bruno Delbonne

Musica: Yann Tiersen

Paese: Francia

L’amore a Parigi. Facile innamorarsi di Parigi e facile innamorarsi a Parigi, almeno a credere al piccolo e sdilinquito film, ormai culto a Parigi, giustamente sdegnato da Cannes e altrettanto giustamente adorato dal pubblico che non smette di parlarne e di recarsi in pellegrinaggio nei luoghi del film (nessuno cerchi di bersi un Picon ai Deux Moulins a Monmartre, che da polveroso e pittoresco caffè sconosciuto parigino si è tramutato, ranocchio-principe, nel più frequentato reliquario del pittoresco fasullo).

Piccole gioie (come il primo sorso di birra) e poesia semplice e cristallina a Parigi, come resistere?

La vita è un microcosmo riflesso in un cucchiaio e Jeunet colleziona istantanee rubate ad un universo simpatico (è la cosa più gentile che mi viene).

Detto questo Le Fabuleux Destin d'Amélie Poulain non è un film che possa dispiacere, magari un po’ annoiare, visto che potrebbe finire al primo tempo con il ritrovarsi dei protagonisti tra foto e viuzze; ma non inquieta, dona anzi una tranquillità placida e aneddotica nonché una certa aria di famiglia e calore a Parigi che tanto dolce e rassicurata non è. E non lo dico per condannare la bellezza del reale semplice e nemmeno per allinearmi alla polemica di Liberation che nonostante il plebiscito francese per la melassa di Amélie ha osato condannare il film come conservatore e destrorso, come il velo romantico che maschera i conflitti del reale sociale e umano in Francia.

Il favoloso destino di Amélie Poulain, fiaba medievale in titolo e intenti, narra le (in)credibili vicende di una bella cameriera a Monmartre, dagli occhi più grandi del mondo; Jeunet canta le imprese di questa paladina dell’immaginazione, votata, come nel medioevo i cavalieri impavidi, alla nobile causa del rendere felici gli altri. Amélie sgrana gli occhi (come la fatina di Vita da strega stropicciava il naso) e per magia rende felice un vicino; ma chi si occuperà della felicità della piccola Amélie? Amélie si farà da Cenerentola e da fatina tutto da sola, con il piccolissimo aiuto del simpatico vecchietto della porta accanto che in una sorta di psicanalisi fatta per mezzo di immagini pittoriche e filmiche, le farà capire che la vita val la pena viverla e non solo immaginarla (sic).

I soliti giochini seppiati e sudati, i primi piani porosi le angolazioni invertite e accelerate, le inquadrature sghimbesce del Jeunet dei sotteranei e delle case topaia (qui ripresentata in esterno giorno) di Delicatessen, potrebbero suggerire che la realtà non è carina come la si mostra qui, altro che un piccolo film sull’amore a vent’anni a Parigi, ma un giallo esistenzialista sulla volontà di non realtà. Ma Jeunet non obbliga a questi lugubri pensieri e Amélie può rimanervi impressa (per poco) come l’inno alla gioia.

Allora ecco la storiella di una timida fanciulla (una non adatta al reale?), poetica come è giusto immaginarsi, che preferisce vivere senza emozioni e confronti col reale per colpa di traumi reali e immaginari. La dolce Amélie si innamora, senza coraggio di rischiare e di dichiarasi, di un altrettanto poetico timido infelice e solo giovane (disadattato?) che vaga per Parigi.

Amélie, che non è affatto contenta di vivere sola e facendo felici gli altri, cerca di far innamorare via stratagemma e senza doverci mai parlare, Matthieu Kassovitz, chiamato Nino Quincampoix –un personaggio talmente anonimo e spaesato da chiamarsi come la via vicino a Beaubourg- che lavora in un sexy shop a Pigalle e il mercoledì fa lo scheletro in una giostra, e nel tempo libero recupera e ricompone foto tessere rifiutate, non dice mai un parola e si muove con lo stesso stupore rallentato di un mimo.

Nino oltre che essere stato vicino di casa e reclusione di Amélie, come Amélie ama la realtà altrui, solo che Amélie cerca di operare per migliorare il reale futuro e Nino si adopera perché il reale passato non venga disperso e ricompone le immagini stracciate perché non rispondenti all’immagine di sé (e non si può non ammettere di essere affascinati da questa storiella, ispirata dalla monomania dello scrittore Michel Folco, amico di Jeunet, che raccoglie da anni foto tessere gettate e che per l’occasione ha prestato il suo album).

Amélie tutt’occhi, che raccoglie sassolini da gettare, e non da seminare sulla via, perché a casa non ci vuole tornare, alla fine si cercherà (crediamo) casa con il dolce Nino, dopo tenere e carine vicissitudini di agnizioni e allontanamenti.

Amélie finisce come una fiaba che Storia non è. E vissero felici e contenti in giro sul vespino.

Il film poi è farcito di tutti i pittoreschi immaginabili, raccolti nel quartiere di Monmartre fa da loggione e spettatore delle vicende; c’è il vecchio dalle ossa di vetro che vive recluso per non rompersi e dipinge ogni anno lo stesso quadro di Renoir immaginando che possano pensare mai gli i personaggi dipinti, c’è il verduraio con l’estetica del legume, c’è la tabaccaia ipocondriaca, c’è lo scrittore mai letto e c’è anche un detective del quotidiano che registra come in Twin Peaks i misteriosi movimenti degli avventori del bar.

E Amélie renderà la vita più bella a ognuno con immaginosi stratagemmi, quelli che mette in atto anche per sé seminando per Nino piste di foto e frecce blu fino al Sacre Coeur.

Amélie rende la vita più lieve a tutti perché lei ha tanto sofferto, per il pesciolino rosso che voleva vivere fuori dall’acqua, per la madre spiaccicata sotto un turista suicida in caduta libera dal cucuzzolo di Notre Dame, per il padre taciturno e privo di amore che vive solo per il mausoleo creato in onore della moglie morta, fatto di conchiglie e chincaglierie, e per il suo nanetto da giardino (e liberiamoli), per le cattiverie del vicino verduraio.

Inutile narrare i mille stratagemmi di Amélie, che riscrive lettere dal fronte e finge che siano state perdute solo per rendere felice la vicina, che manda in viaggio per il mondo il nanetto paterno e gli fa spedire cartoline deliranti con il nano e le meraviglie del mondo, che penetra in casa del vicino e scambia dentifrici con creme per i piedi, brucia linee elettriche, come neanche in un film di Wong Kar Wai, che spinge a innamorarsi il detective del quotidiano e la tabaccaia, e che scrive sui muri i versi dello scrittore.

L’iniziale siparietto fumettistico con enumerazione di ciò che la gente ama e odia di più che si sviluppa come un giallo sulla ricerca dell’amato e termina come la fiaba più classica, evita sempre di parlare della ricerca dell’amore.

La storia edificante di Amélie ci spiega che il successo nella vita non consiste nella ricchezza ma nei veri sentimenti, e non allude a niente che stia dietro o intorno.

La maga Amélie rende la vita incantata a chi le sta intorno e tutto inizia il giorno della morte di lady D, e questo è anche l’unico particolare temporale che ci permetta di situare questa vicenda amorosa altrimenti priva di ogni riferimento, perché si sa si sa l’amore non ha tempo né spazio, ma così perde la dimensione della memoria e del tempo.

La sociologia dei margini, i personaggi che non faranno mai la storia ma le cui storie sono più importanti delle vicende guerresche e principesche, la telecamera che coccola la protagonista danno un’impressione claustrofobica, sembrano suggerire che non puoi relazionarti che con quelli che abitano o hanno abitato nel tuo condominio.

Amélie, inadatta alla vita troverà la felicità e la normalità nell’amore, banalmente bello se volete, vagamente terapeutico se credete alla psicanalisi, oppure tristemente e semplicisticamente conformista, l’immaginazione al servizio del reale. E invece che lamentarsi per non poter partecipare alla fiaba realizzata non si può che essere felici di non sapere che banali vicende accadranno, e non si può che esser tristi che i non adatti non restino tali.

Questo non è un film sul tempo e la memoria, non si interessa alla Storia, non si preoccupa dell’impossibilità dell’amore, della sua difficile metamorfosi e delle sue definizioni, non contiene nessun adulto, non parla di qualche cosa se non di sé, niente è alluso, si accontenta della vita e non si contamina con l’esistenza e soprattutto non ha mia neanche sfiorato il pensiero che la verità possa essere triste. Consolatorio e carino, si esce fischiettando ma una volta usciti non ci si pensa più. Non è Eloge de l’amour, altro film che sembra (in parte e come spunto) interrogarsi sull’amore a Parigi, che ti ronza nella testa, anche se dà fastidio perché ti costringe a pensare che le cose sono lì per inventarle, che la vita va immaginata altrimenti e che se parli di qualcosa stia sempre parlando d’altro.

Ma non stavo parlando di Amélie?