NearDark - Database di recensioni

NearDark - Database di recensioni

Africa

Godard Tracker


Tutte le
Rubriche

Chi siamo


NearDark
database di recensioni
Parole chiave:

Per ricercare nel database di NearDark, scrivete nel campo qui sopra una stringa di un titolo, di un autore, un paese di provenienza (in italiano; Gran Bretagna = UK, Stati Uniti = USA), un anno di produzione e premete il pulsante di invio.
È possibile accedere direttamente agli articoli più recenti, alle recensioni ipertestuali e alle schede sugli autori, per il momento escluse dal database. Per gli utenti Macintosh, è possibile anche scaricare un plug-in per Sherlock.
Visitate anche la sezione dedicata all'Africa!


L'inglese - the Limey
Anno: 1999
Regista: Steven Soderbergh;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 24-02-2000


the Limey

Wilson.....Terence Stamp
Elaine.....Lesley Ann Warren
Ed.........Luis Guzman
Avery......Barry Newman
Uncle John.Joe Dallesandro
Stacy......Nicky Katt
Valentine..Peter Fonda
Adhara.....Amelia Heinle

Director................Steven Soderbergh
Written by..............Lem Dobbs
Produced by.............John Hardy
                        Scott Kramer
Director of Photography.Ed Lachman
Composer................Cliff Martinez
Editor..................Sarah Flack
Distributed by: Artisan Entertainment

Escludendo il mito dei due inarrivabili – perché rappresentano un’epoca, della quale peraltro cercano di rinverdire la memoria con motteggi e rievocazioni anche nel film – attori, c’è nel film una costante presenza aliena che evidenzia l’artificiosità della realtà riprodotta, parzialmente filologica nel riprodurre quelle situazioni desunte dal cinema ’70; soprattutto lo scontro con la banda di gangsters e l’epilogo rocambolesco non ripreso, ma realizzato nobilitando il genere. Quella scelta di riprese e situazioni – un topos classico dei film polizieschi di trent’anni fa era la festa in una villa in collina – conferiscono al film una patina di familiare mondo perduto, concentrato poi nella ormai celeberrima battuta sottolineata da Peter Fonda sulla fine del 1966, inizio ’67: «Immagina un posto che tu non conosci, eppure arrivandoci ti orienti.» ("Più che una persona, sei una vibrazione" e la ragazza che vive con lui sembra estratta di peso da Easy Rider). Ma non è solo quella relativa alla filologia la funzione di quel montaggio: ancora più incisivo è il suo legame con l’opportuno punto di vista dal quale ci viene suggerito che dobbiamo fruire il film. Quello di Terence Stamp di ritorno a Londra in aereo, rinverdendo la tradizione di scontro tra i due mondi anglosassoni allocati sulle distinte sponde dell’Oceano.

Per restituire la sensazione di frammentarietà della memoria rivissuta si è optato per invenzioni di montaggio sorprendenti e godibili. La prima di queste soluzioni è adottata con Eduardo, il chicano amico della figlia che lo accompagna nell’impresa: se ne ha sentore quando l’incongruenza del viso immoto di Wilson-Stamp coincide con una banda sonora in cui l’eroe parla con la bocca ostinatamente chiusa. Da quel momento in poi la maggior parte delle sequenze sono montate con brevissimi inserti di pochi fotogrammi apparentemente innaturali (in realtà vicinissimi alla ricostruzione a posteriori di qualunque memoria) che dell'abusato attacco sul movimento fanno scempio con irrazionali successioni incongruenti per luoghi e tempi. Una mescolanza però facile da dirimere e da apprezzare, in particolare quando a raccordare si inseriscano epiloghi di sequenza dilatati che potrebbero essere stampati all'infinito («Digli che sto arrivando. Digli a quel bastardo che sto arrivando!!» è una bandiera del film e di tutti quelli a cui fa riferimento), i quali sovrastano il resto e rimangono impressi perché si contrappongono all'andazzo frammentario derivante dall'interruzione del flusso dei fotogrammi capace di offrire una visione cubista del personaggio inquadrato; sono al contrario prorompenti figure palpabili eppure da racconto illustrato quelle inquadrature che si vuole rimangano impresse ancora di più (è un film di "impressioni"), fino al gioco del Che gonfiato sulla pancia rotonda di birra di Eduardo, incapace di contenere la t-shirt su cui è effigiato.

A complicare l’espediente già parzialmente adottato in Out of Sight e aggiungere un piano filologico si aggiungono le immagini tratte da Poor Cow, il vecchio film da cui si acquisiscono le immagini di Stamp da giovane – e già criminale –, utili per ammonticchiare i suoi ricordi della figlia piccola con un credibile Terence, autentica versione giovane di Wilson: la stessa operazione filologica sui film della blaxploitation fece Tarantino con Jackie Brown: con minore coraggio sperimentale. Quelle vecchie scene di vita familiare di Loach si mescolano ai ricordi più recenti a comporre il rimpianto e la nostalgia, accatasatando alla rinfusa – ma non tanto (intere serie accomunate dalla rincorsa di un'immagine della costa, amata dalla figlia scomparsa) – la vendetta e la rappacificazione di un anziano svuotato della rabbia, che si guarda a distanza. E si vede icona.
Solo che l'icona è più veloce del tempo (e quindi può scorrazzarvi a suo piacimento) e dei nemici sprovveduti che non indovinano il vero aspetto del vecchio che hanno di fronte. Egli annota ogni dettaglio della casa (che Eduardo si chiede su cosa si fondi, per riceversi in risposta di nuovo apparentemente illogica: «Sulla fiducia»): le statuette del kamasutra, anch'esse vestigia della liberazione sessuale, le foto di Jenny...

Ancora ci vengono riproposte più volte affastellate le immagini ossessive, guardandosi dall'entrare nel dettaglio del muro rosso in campo lunghissimo ma non abbastanza da non rimanere sedotti dall'incedere elegante e determinato di Stamp: emergono le situazioni più significative, quelle che preludono alla azione, accennata o ripresa in campo lungo, come si faceva negli Anni Settanta, senza elidere il gesto, preferendogli però la preparazione che già comprende l'ovvio epilogo. Tuttavia due episodi sono diluiti oltre al prologo che ci presenta il vecchio come un duro in grado di sbaragliare l'intera banda da solo. La prima di queste sospensioni dell'andamento sincopato è quella del poliziotto della DEA, per il quale viene riservato il più completo discorso squinternato sia per il testo che per l'alternanza di primi piani, piani americani e riprese dal basso allo scopo di ottenere un risultato entusiasmante: lasciar intendere il senso generale e concluderlo platealmente con la rivelazione al furbo investigatore di essere a conoscenza della sua appartenenza alle forze dell'ordine, gettando una luce ancora più eroica sul vendicatore solitario; però per tutto il racconto si rispetta l'unità di luogo, nonostante non si rinunci allo sminuzzamento dello spazio stesso, reso con maggior evidenza spechcio bidimensionale infinitamente scomponibile. Il secondo è la lunga serie di immaginarie uccisioni di Valentine-Fonda: in rapida successione, nelle pose più disparate, con le espressioni più truci e insensibili, non prive di ironia. Una volta immaginata la vendetta può anche aspettare, tanto è già stata documentata e catalogata dalla memoria che ce la ripropone esattamente come il resto delle sequenze. Infatti non vedremo ovviamente come termina la lotta sulla spiaggia tra le due incarnazioni degli afflati di liberazione anglo-americani della ribellione giovanile, che si fanno incontro uno completamente vestito di bianco (Valentine, procuratore musicale) e l'altro, il vendicatore (incarcerato per aver rubato l'incasso dei Pink Floyd a Wembley: un mito), rigorosamente in nero. Elegantissimi occupanti di immagini in libertà, pronte sull'aereo a inanellarsi nuovamente secondo un nuovo ordine di montaggio.




Per un approfondimento dell'aspetto tecnico formale consultate la recensione di Andrea Caramanna