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L'elemento del crimine - Forbrydelsens element
Anno: 1984
Regista: Lars Von Trier;
Autore Recensione: Federica Arnolfo
Provenienza: Danimarca;
Data inserimento nel database: 20-08-1998


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"C'è del metodo nella sua follia", faceva dire qualche secolo fa ad uno dei suoi personaggi il grandissimo drammaturgo di Strattford-on-Avon. Si parlava di un principe. Di un principe danese.

Alle soglie del 2000, sento parlare di un regista che starebbe girando ogni giorno qualche sequenza di un film che vorrebbe far uscire tra 30 anni, o giù di lì. Un folle, o un genio?

Ho percorso il cinema di Lars Von Trier in senso antiorario, dal suo ultimo film al primo, da "Le onde del destino" a "L'elemento del crimine". Via via convincendomi che avevo a che fare nello stesso tempo con un folle e un genio.

"L'elemento del crimine" è un film del 1984. E' un noir che non è un noir, un thriller che non è un thriller, un poliziesco che non è un poliziesco. A voler a tutti i costi vederci una storia, c'è un famoso detective, Fisher, che vive e lavora a Il Cairo e che viene richiamato in Europa per risolvere un caso difficile, quello di un serial killer che sembra prendersela con le ragazzine che vendono i biglietti della lotteria. Fisher ha un suo metodo, imparato dal vecchio maestro Osborne, teorico del crimine, secondo il quale per riuscire a catturare l'assassino bisogna identificarsi con esso. Capire il perché del crimine attraverso "l'elemento", i segnali, le tracce. Lo schema. C'è in nuce una buona parte di quello che sarà il cinema hollywoodiano di lì a pochi anni: il killer è un artista, uccide non a caso ma seguendo uno schema preciso ed intelligente. Questo film ha già dentro di sé, come la crisalide che contiene la farfalla, tutto il cinema di genere da "Il silenzio degli innocenti" a "Seven".
Fin qui la storia, che a volerla seguire si finisce col restarci male, ché non v'è conclusione possibile. Né, del resto, è interessante trovarla.
Ma dove finisce la storia, inizia lo stile. Un grandioso esercizio di stile, considerando che trattasi di un'opera prima.
E' bello vedere questo film conoscendo già il cinema di Von Trier, perché si vede la firma dalla prima inquadratura, dove il colore che domina è il rosso, e si intuisce subito che sarà così per tutto il film. Poi, è un susseguirsi di inquadrature piene di particolari minuziosi, quasi ossessivi, di lenti movimenti di macchina rigorosamente a mano, di immagini oggettivamente curatissime e affascinanti. E c'è la voce narrante dal tono cadenzato e quasi ipnotico che tornerà, prepotentemente, nel successivo "Europa" (e anche qui, in questa Europa, l'acqua la fa da padrona).
E ci sono le citazioni. Due, in particolare, mi hanno colpito: la piccola testa di cavallo che semina l'assassino sul luogo dell'omicidio, che ricorda così tanto il piccolo unicorno che raccoglie Deckard nel finale di "Blade Runner", e il riferimento borgesiano al volto umano come "mappa".

A questo punto, chiuso il cerchio, posso riprendere il cammino in senso orario, ed aspettare che finalmente approdi sugli schermi italiani "Gli idioti".
Maledetto danese, mi verrebbe da dire parafrasando Stig Helmer: ah, se c'è del metodo, nella sua follia...