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Sono belli alcuni frammenti, alcuni dettagli: particolarmente coinvolgenti e ben girati, proprio perché severi e glaciali, gli istanti di approccio dei due aspiranti genitori con una bambina da adottare (l´operazione fallirà): la freddezza dei rapporti, l´imbarazzo, la glacialità di ruolo dell´istitutrice non sono senza rapporto con l´ambiente che è stato anche quello di Thomas Bernhardt. Probabilmente c´è anche il riferimento all´estraneità che lega tutti i personaggi, non solo gli uni rispetto agli altri, ma anche rispetto ai fatti di cui vediamo scorrere le immagini televisive: ma anche qui, poco di nuovo. Ben altro vigore dava Prènom Carmen alle diverse strade dei musicisti e dei rapinatori. Altro spessore emotivo, altro spessore morale. Qui l´universo è chiuso, non c´è il suggerimento di Bresson a un´altra dimensione, a un´altra possibilità (non necessariamente cristiana) che quello di Thomas Bernhardt. . Immagino che sia quello che il regista voleva, in questo suo cercare di ¨governare l´alea¨, di addomesticare il caso. È molto bella, invece, e anche giusta, la scelta di non dire niente del ¨prima¨ dei personaggi: quelli che vediamo sono i loro piccoli e grandi drammi, ma non spiegati, solo lasciati intuire: che cosa c´è dietro, per esempio, alla scelta di fare i genitori adottivi? Crisi di rapporti, patologie, paura, o cosa altro? Tutto ciò che provoca le singole storie lo dobbiamo mettere noi, e scopriamo che abbiamo una competenza per farlo (anche per il bambino scappato da Bucarest), per fare congetture. Il film può solo buttarci lì il punto di convergenza: a noi di stabilire se le nostre congetture trovano conferma o smentita nel momento culminante.

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71 Frammenti di una cronologia del caso
Anno: 1994
Regista: Michael Haneke;
Autore Recensione: Alberto Corsani
Provenienza: Austria;
Data inserimento nel database: 23-07-1998


71 Frammenti di una cronologia del caso

71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls

Regia e sceneggiatura: Michael Haneke
Fotografia: Christian Berger
Costumi: Erika Navas
Montaggio: Marie Homolkova
Cast: Cosmin Urdes, Otto Grünmandl,Lukas Miko,
Anne Bennent, Udo Samel, Branko Samarovski
Claudia Martini, Georg Friedrich

Produttore: Veit Heiduschka
Direttore di Produzione: Willi Segler
Produzione: Wega Film Produktions
Formato: 35 mm.
Durata: 103'
Provenienza: Austria
Anno: 1994


È non un capolavoro; un film interessante, rigoroso, asciutto, scandito dai fondini neri che separano un frammento dall´altro, montato per ellissi, un po´ come Bresson. La vicenda è semplice: un giovane, due giorni prima di Natale (1993) uccide per un banale litigio tre persone in una banca, poi si uccide a sua volta. La vicenda si sviluppa in realtà negli ultimissimi frammenti, ma è preparata attraverso le storie individuali di più personaggi o gruppi: un anziano malato; una coppia di aspiranti genitori adottivi; un ragazzino giunto chissà come da Bucarest; addetti alla sicurezza della banca; impiegati; scene di famiglia e scene di lavoro; scene di spostamenti; superstrade e svincoli. Il tutto punteggiato dal ritorno frequente di scampoli di TG che fanno riferimento a alcuni fatti tristemente noti: Sarajevo, il generale Aidid, la Somalia, Michael Jackson (pure lui, tristemente). Alla fine si tirano le somme dei possibili incroci, le strade si intersecano e tutti sembrano convergere alla banca viennese luogo di tragedia: un ultimo TG darà la notizia del gesto folle. La procedura non è certo nuova, semmai è radicale per come è portata all´estremo e per come è dichiarata fin dal titolo. Non era nuova la procedura narrativa, d´altra parte, quando Sartre scrisse la Trilogia dell´anima (bello il 2º, sulle settimane che precedono lo scoppio dell´ultima guerra mondiale) copiando sostanzialmente le procedure da Faulkner che le usava molto meglio (d´altra parte l´originale è sempre meglio della copia: perché ascoltare Zucchero se è ancora vivo Clapton? O usare Windows invece del Mac? (Êpiccola polemica, inutile, fatta per dovere di schieramento). Anzi, a vederlo due volte, questo film sembra caratterizzarsi come una vera e propria dichiarazione di poetica, un film saggio non su qualcosa che sta nella realtà, nel mondo, ma su un modo di fare cinema: il che, normalmente, mi irrita parecchio. Nello specifico, questo è un modo di fare cinema bello nelle sue forme: l´asciuttezza, appunto, le azioni che non finiscono e vengono troncate (ma anche qui, lo fa molto meglio Bresson, e dopo Bresson Kiarostami). Probabilmente l´assenza di enfasi è la stessa di Funny Games, probabilmente Haneke stava abbozzando quello che poi ha realizzato più compiutamente.