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Kazi Kasto Me Ostavi? - Perche' mi hai lasciato?
Anno: 1993
Regista: Oleg Novkovic;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Jugoslavia;
Data inserimento nel database: 31-10-1999


Kazi Kasto Me Ostavi

Kazi Kasto Me Ostavi?
Perché mi hai lasciato?


Regia: Oleg Novkovic
Sceneggiatura: Miladin Colakovic
Fotografia: Miladin Colakovic
Montaggio: Marko Glusac
Scenografia: Biljana Tabacki
Musica: Zoran Simjanovic
Costumi: Maja Nedeljkovic
Distribuzione: ARCI
Provenienza: Jugoslavia
Anno: 1993
Durata: 1 hr. 30 min.

CAST


Zarco Lausevic,
Milica Mihajlovic,
Ljubisa Gojkovic,
Dragan Jovanovic,
Vladan Dujovic,
Danilo-Bata Stojkovic,
Stevo Zigon, 
Rahela Ferari,
 Predrag-Pepi Lakovic, 
Slavko Stimac 

Scacchi, pesca, canzoni, piatti tradizionali - per i quali vale la pena di tornare dal fronte, ... pistola.
Ci sono interessanti momenti e oggetti ricorrenti, volute prolessi, che perdono la loro natura rincorrendosi lungo l'intero racconto, nei quali si riassume il film musicale più triste della storia del cinema. Non angoscioso, per quella forma distaccata che hanno gli slavi di analizzarsi, né dolorosa, intrisa di triste ricorsività, a cui la struggente musica aggiunge fatalità ammantata di allegorici appuntamenti; il culmine dell'emblematicità si raggiunge con la comparsa del calesse rosso trainato da un tiro di due cavalli ogni volta che la morte si porta via un protagonista spedendogli quella sorta di taxi metafisico. Un immaginario po' troppo standardizzato, ma di buon effetto l'impatto, soprattutto tra i fumi di Vukovar.
Echi di cinematografie precedenti denunciano una forte appartenenza alla cultura slava: Underground, di cui rimane in particolare l'amarezza, anche per il fatto che i film sono accomunati dall'assunto per cui una volta esperita la dimensione bellica, questa rimane incollata ai comportamenti dei protagonisti, però in un caso avviene attraverso il sarcasmo, nell'altro con una spossante sensazione di impotenza, che toglie realmente le forze. Altra forma di omaggio si può cogliere nel taglio delle inquadrature in zona di guerra o negli elementi (in particolare l'acqua danubiana stagnante che culla i cadaveri dei familiari di Vera), che possono far pensare agli assilli di Tarkovskij (in particolare in Ivanovo Detstvo). Mentre l'accademica tecnica del rallenti durante la carica non può non evocare il caro fantasma di Peckimpah, soprattutto dopo la preparazione attraverso i momenti di tensione descritti con ottimi primi piani tra le rovine diroccate di case e i lancinanti urli della ragazza stuprata.
Queste reminiscenze fanno benissimo il paio con allegorie e dettagli carichi di significati reconditi anche troppo scoperti e comunque commoventi senza essere strappalacrime come nel breve episodio dell'arancia lasciata scivolare nelle tasche del giovane Pegia dal padre, che in un esagerato tentativo di connotarlo metaforicamente è impegnato dall'inizio della guerra a scolpire pezzi di legno per lasciare qualcosa di buono dietro di sé. Un personaggio tenero, ma troppo retoricamente connotato (le mani in dettaglio che affettuosamente denunciano una pietas dolciastra, benché autentica), come le immagini simboliche di gusto un po' troppo esplicito (la barca di Ljuba, semiaffondata dopo la sua scomparsa). Tra i molti luoghi che ritroviamo più volte in questo pellegrinaggio uno è particolarmente sottolineato, un punto sul fiume dove un pescatore commenta con i personaggi il loro destino da deus ex machina e come disilluso jugoslavo la fine della sua nazione ("I pesci mangiano i cadaveri?"). L'atmosfera è azzurrina, gelida, glaciale. L'inverno della Jugoslavia, il cui cielo appare sempre più distante.

L'attenzione alla evocazione di atmosfere già sperimentate nelle cinematografie dell'est europeo non si stempera in certi interventi registici alla ricerca dell'effetto cinefilo. I 180° coperti dalla cinepresa impeccabilmente dal soffitto al muro su cui campeggia (al contrario, non a caso) il manifesto del Moulin Rouge, contraltare dello stato d'animo di Pegia diametralmente opposta ad Ivana, per arrivare al talamo su cui i due giovani hanno appena consumato un rapporto frettoloso, e poco appassionato, rispetto alla desiderata, e goduta, scopata liberatoria che farà compenetrare il corpo inquieto di Pegia con quello tormentato di Vera. La carrellata sui calligrafismi prosegue con la classica ripresa dall'alto con attacco in movimento su una processione funebre, come prologo dell'episodio macabramente divertente della croce rotta sulla testa. Ottimamente realizzate le immagini con cui si riprende la sequenza del biliardo, inseguendo la granata con dettagli che alternano i veloci gesti dei giocatori ed il balletto attorno al panno verde, rallentando magistralmente alla fine il ritmo con un ottimo gioco inversamente proporzionale tra velocità di ripresa e tensione che coincide con la fatalità del destino dei due reduci-zombies, un'altalena tentata più volte nel film e talvolta inficiata dai grevi simbolismi, invece in questo caso si prepara così bene l'epilogo della granata con cui Rade si uccide che è un liberazione anche per gli spettatori, ed è l'unica conclusione possibile.

Anche la toccante morte di Ljuba risulta a posteriori molto densa di simboli. A posteriori perché lo statico momento di sospensione in cui si attende la sua dipartita sfrutta il gioco di luci e i totali dello scantinato sospendendo il flusso narrativo in modo da rendere palpabile il lento impadronirsi dell'intero ambiente da parte della morte ed è a tal punto intenso che solo in seguito si nota la forte impostazione pittorica, che può far pensare ad un'allusione alle Parche: la madre di Vera intenta a cucire come Làchesi, tra la sorella (Cloto) che sembra tessere e Vera stessa che introduce per la prima volta la canzone del titolo e sembra accompagnare il destino di Pegia fino al momento in cui reciderá il suo filo, come Atropo. In effetti si respira per tutto il film la cieca ineluttabilità che rappresentano le Moire, mentre il tentativo di regolare i conti con il mondo dell'epilogo si riscontra nell'evoluzione del mito e con l'introduzione della lettura delle tre figure mitologiche come l'introduzione di regole morali che placano il destino attraverso l'espiazione: così l'arrivo del calesse risulta più accettabile. Almeno naturale.

L'aspetto più inquietante è l'abitudine: in qualunque luogo e condizione si ripetono gesti e automatismi che ricorrono anche nella scelta delle riprese e nell'impianto delle sequenze, racchiuse tra un inizio che ripropone un elemento già introdotto, si sviluppano e terminano con musica o situazioni che sospendono soltanto momentaneamente il flusso per ricominciare ad incastonare luoghi e relazioni non più in grado di incastrarsi. Solo la morte potrà risolvere il nodo.
Va riconosciuto a Novkovic l'aver predisposto all'inizio con l'indiscutibile identificazione dello spettatore con Pegia e con l'introduzione di tutti gli elementi le chiavi per sopportare facilmente sia il peso delle allegorie, sia le lunghe sequenze musicali (la canzone che dà il titolo al film viene ammannita ad ogni sequenza significativa per un totale di almeno sei o sette volte. Integralmente): ciò avviene attraverso una serie di semplici segnali che indicano il codice utilizzato e i luoghi altrettanto ricorrenti nei quali si svolgono le azioni, rendendoli uniformi dal punto di vista della sopravvivenza: a Vukovar, al fronte, come a Belgrado si gioca a scacchi, accennando a quella pratica per cui gli schiaffi sulla faccia del rivale cadenzano i tempi di attesa della sua mossa.
Allo stesso modo stringato il breve inserto relativo alla guerra termina velocissimamente, ma contiene tutti gli stati d'animo derivanti dalla presenza al fronte, giungendo al climax delle urla dello stupro di Vera che deciderà dell'insostenibilità di una posizione ignava, producendo le ferali conseguenze derivanti dall'impossibilità di disgiungere in seguito i fatti di cui si è stati protagonisti con la capacità di accettarli. A meno di concedere brevi momenti di grazia ai reduci; qualunque reduce è condannato, forse perché la società civile non gli perdona la violenza di cui è stato protagonista: la frase finale del fratello di Ivana ("Non hai il diritto di guardarmi così. Tu là hai ammazzato") ribalta la speranza di Rade ("Anche la gente che non sa ci capirà, ci accetterà"). I momenti miracolosi accomunano i reduci: anche il testimone esterno al racconto principale, il venditore di cartoline mutilato, riconoscerà in Vera la figura della donna che per la sua terribile storia è in grado di apportare conforto al militare; una breve pausa dal ricordo che perseguita. Si tratta di miracoli, come viene più volte ribadito ed esplicitato, ma gli effetti dei miracoli sono momentanei.

Invece la funzione della musica è costante: anticipa, accompagna e commenta le sequenze e pervade di sé la realtà dapprima apparentemente per obnubilare la tragedia (lo scantinato a Vukovar) e per distrarre dal ricordo (la festa sulla casa ormeggiata sul fiume), concludendosi sempre con gesti significativi ed enigmatici (il lancio dei due salvagenti significa negarsi ogni possibilità di scampo o disperato invito a mettersi in salvo in una fuga comune dal naufragio collettivo?), successivamente la musica incarna la ricerca della evanescente e sfuggente figura di Vera non tanto stranita profuga quanto perseguitante ossessione, che diventa attrazione sessuale, un modo per comporre lo stupro etnico e pagare ogni debito con l'orrore bellico prima che la musica della medesima canzone si trasformi in definitivo canto di morte, che reclama il tributo del sangue di Pegia. L'ossessione della violenza si fa esplicita nella musica come avveniva in Bure Baruta e le intrusioni delle bande di ottoni o le canzoni sempre preludio di atroci epiloghi.
Il limite del film sta nel voler essere troppo esplicitamente didattico nelle sue espressioni simboliche, talvolta ingenuamente risapute: il treno in corsa durante la focosa scopata di Vera e Pegia è un classico, come il calesse sembra uscire dall'immaginario senile di Anghelopulos e prima o poi si s'aspetta la battuta su dove sia Eldorado, vista l'insistenza con cui compare la scritta sulla fiancata dell'auto rubata: Eldorado non è più in Jugoslavia, qualora ci sia mai stato.