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Karmen Gei
Anno: 2001
Regista: Joseph Gaye Ramaka;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Senegal; Francia;
Data inserimento nel database: 19-11-2001


Karmen Gei - Joseph Gaye Ramaka

Karmen Geï

di Joseph Gaye Ramaka

fotografia: Bertrand Chatry

scenografia: Nikos Meletopoulos

montaggio: Helen Girard

costumi: Mame Faguye Ba

musica: David Murray

Senegal - Francia, 2001, durata 86'


Prorompente, potentemente corporeo; adesca lo sguardo con balli che non hanno nulla di folklore per turisti, ma allo stesso tempo insinuano un tarlo su quali universi profondamente culturali si nascondano dalle parti della costa di Dakar. Non si tratta di una "versione" africana della Carmen di Merimée musicata da Bizet, questa è una interpretazione autonoma del mito, dove si riconoscono le tappe del racconto famoso. Ma la contemporaneità della collocazione, la tradizione di ciò che passa attraverso i balli, i duetti che non hanno nulla a che fare con la prassi della lirica occidentale o i passaggi tra le sequenze che adottano le sonorità acide di un denso jazz, rendono il risultato un succulento coacervo di torbide passioni, ribellioni alla corruzione del potere, illegalità e sfrontate sfide alla morte, rispetto alla quale emergono alcune inquietanti rappresentazioni della percezione della sua presenza, che trovano nella cultura subsahariana l'humus che tonifica tutto: coreografie, che all'inizio introducono violentemente nello spirito del film con i due scontri di corpi al femminile (l'adescamento della direttrice del carcere di Gorée – famigerato punto di partenza per le navi negriere – e la rivendicazione sociale che passa attraverso la rivalità amorosa tra la bella fidanzata di Lamine e Karmen), entrambi s'iniziano come espressioni che scuotono il singolo, contagiano l'Altro, vittima e complice nella seduzione, e poi coinvolgono tutti gli astanti; uno schema che si ripete anche per i canti, che trascorrono dalla romanza alla stornellata, al coro a cappella, tutti reinterpretati magistralmente dai ritmi africani che li svuotano degli stilemi occidentali, riempiendoli di sonorità trascinanti, magiche. Una vera rappresentazione delle potenzialità nascoste nella musica senegalese e della sottile membrana che divide il mondo dei vivi. fatto di colori intensi – vividi appunto: una sequenza per tutte quella del mercato che si apre sulle note di un sax inquadrato che suona per strada seguito da una piccola folla, dove non a caso maggiormente si sente la presenza della morte, anche questa per simmetria introdotta dal cambio di sonoro, finendo in una nicchia buia di timore, ombra e polvere – immersi nel calore dei tramonti infuocati o delle notti illuminate da faci, di movimenti giocosi, erotici di quell'erotismo elegante che fanno del sesso una ragione naturale di vita, da quello dei morti, sovraesposto, allucinante – nel pieno senso della parola: abbaccinante –, statico e senza colore, tanto che le facce che accolgono la carrellata in avanti sulla via dei morti sono coperte da strati di cerone, maschere inquietanti, che le carte della giovane donna libera da ogni legame, come la zingara di Bizet, aiutano a preconizzare nell'intreccio di amore e morte, che travolge dapprima la direttrice del carcere, per la quale Karmen prova una vera passione, nonostante "il suo amore fosse triste", e poi la stessa Karmen.

La prima sequenza si risolverà con un dolly finale sulla baia di Dakar scavalcando 'danzando' le mura della prigione, ma all'inizio vediamo crearsi un cerchio di donne in un'ampia piazza di rena ocra. Si stanzia in tutta la sua bellezza dirompente la statuaria Karmen che prende a ballare vorticosamente fino a far aderire il suo corpo con quello della direttrice, che si alza in uno struggente languore percepibile in quelle membra, che di lì a poco vedremo nella bollente notte del Sahel, luccicare sotto fioche lampade che le svestono, avvolgendole in abbracci voluttuosi del colore caldo di quei pertugi da reclusi, che valgono la libertà di Karmen. Infatti si trattava della spianata del carcere e il ritorno delle donne nelle celle dopo l'esibizione di grazia è sovraeccitata dai sensi risvegliati da quelle movenze. Ma tanto sono centrali i corpi luccicanti nella loro splendida nudità, altrettanto sono significativi i vestiti e i colori che esprimono anche visivamente sentimenti e passioni, livelli di casta e libertà di pensiero ("Devi liberarti della divisa che tieni nella testa", dice un trafficante al caporale Diop); e libertà di costumi: Samba è un vecchio amante di Karmen e la capisce più profondamente di altri, ma come dice la vecchia Ma: "Quando i tuoi fianchi fremono, gli viene il mal di mare", anche a lui, tale è la dirompente forza sprigionata da quel corpo libero, da quel desiderio scatenato, da quella passionalità irresistibile.

Il testo poi è tutt'altro che banale, ma evoca mondi di spiriti e discetta di amour fou senza retorica né sdilinquimenti, mescolando guardiani di faro saggi e affascinanti con macerati poliziotti, redenti da Karmen, che rappresenta l'anima popolare più schietta, quella che combatte il potere direttamente sfidandolo: "I vostri fucili non mi hanno uccisa, siete malvagi, avete divorato la nazione, mangeremo i vostri cuori". Ed è innanzitutto un universo femminile al punto che Lamine (l'assassino per amore di Karmen: "L'ami troppo, l'ami male") di fronte alla forza ctonica della splendida ragazza rimane smarrito: "Non riuscirei a riconoscere nemmeno la mia ombra"; una potenza che trova espressioni metaforiche nel fuoco che danza nella caverna davanti a lei, ma che sorge anche dalla partecipazione della folla all'amore che si consuma tra loro al piano superiore della casa di Ma Penda, una vera Mamma Africa, che verrà difesa da Massigi, un giovane aitante del popolo che si frappone tra l'anziana combattente e l'autorità poliziesca (un tema fondamentale in questo festival che emerge carsicamente tra Straub, Rezza...).

Ritorna ricorrente la metafora dell'uccello nei canti di Karmen (non ci si accorge quasi che l'80% del film è una partitura cantata perché è tutto così naturale da stemperare la rappresentazione che in occidente avrebbe prodotto una teatralità ingessata, mentre in questo caso i movimenti fluiscono e le parole si amalgamano alle note): esso viene paragonato all'amore, perché non si può trattenere, non si può chiamare, è fragile e per un nonnulla vola via, come la vita, ovvero come la morte, in agguato non a caso in teatro, tropo retorico rispettato per far rientrare il racconto nella sua bara, lo spettacolo, proprio nel momento dell'epilogo tra le corde del sipario.