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Jukui sai no chizu - La mappa di un diciannovenne
Anno: 1979
Regista: Yanagimachi Mitsuo;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Giappone;
Data inserimento nel database: 16-03-1999


Jukyu sai no chizu

Regia: Yanagimachi Mitsuo
Soggetto: Nakagami Kenji
Fotografia: Sakakibara Katsumi
Montaggio: Yoshida Eiko
Scenografia: Hiraga Shun'ichi
Costumi: Ishii Seiji
Musica: Itabashi Fumio
Suono: Seto Iwao
Interpreti: Honma Yuji, Kanie Keizo, Okiyama Hideko,Yamaha Hatsuo, Hara Chisako
Produzione: Yanagimachi Mitsuo, Nakamura Kenichi, Production Gunro
Provenienza: Giappone
Anno: 1979
Durata: 109'


Jukui sai
no chizu

La mappa di un diciannovenne

Connaturata alla cultura giapponese è la predisposizione a far riaffiorare periodicamente un fantasma: il pericolo dell'individuo solipsista che fa dell'alienazione derivante dal lavoro e della incomunicabilità il detonatore per innescare la propria guerra privata con la comunità, che agli occhi del paranoico assume l'aspetto della congiura ai suoi danni, a cui risponde ergendosi a vendicatore nichilista di se stesso, ma incapace finora di mettere in pratica le minacce: "Lo farò, aspetta e vedrai" è la frase finale pronunciata al telefono con il giornalista, ma rivolta più che altro a se stesso, come capita per il seventeen (privo anche di nome a maggior scherno) di Oe, la cui vicenda ci è narrata in un delirante flusso di coscienza. La descrizione di questo meccanismo che scatta con cadenze ventennali passa spesso attraverso turbe della sfera sessuale .

Questo mondo è degli altri, non ho la libertà di usarlo. Non ho amici, non ho alleati. Se fossi di sinistra, dovrei entrare nel Partito Comunista! Sarei ancora solo? [...] Non capisco, residui di angoscia ancora irrisolti in ente, anche se entrassi nel partito comunista sarebbe lo stesso, non so credere in nulla, rimarrei comunque infelice.[...] Se solo questo mondo mi offrisse una mano da afferrare appassionatamente, con semplicità e con fiducia! Sfinito mi rassegno e ricado sul letto della cabina, frugo tra le coperte, prendo il pene tra le dita e comncio a farlo rizzare a forza per masturbami." (Oe Kenzaburo, Il Figlio dell'imperatore, Marsilio Editore, p.26)

E poi: sviluppa recrudescenze tali da innescare dirompenti manifestazioni:

"Ho fatto il massimo per essere corretto, sono un seventeen sfigato e ripugnante ma anche il mondo mi ha inferto cose orrende, oscene, non mi sforzerò più di cercare la buona fede nella società moderna, con gente simile, devo smetterla di aggrapparmici, sprofondo in un mare di vergogna, sento un'immensa fatica, starnutisco per il freddo dei pantaloncini bagnati, la mia decisione si rafforza, devo acuire odio e ostilità, forse perché sono sul punto di scoppiare a piangere." (Ibidem, p.40)

dallo sguardo entomologico di Imamura Shoei ai racconti di Oe Kenzaburo (dove il seventeen è semplice preda delle ideologie retrive, ma alieno da schematismi, lucido nella sua follia al punto di riuscire a reggere la finzione di un mondo completamente ricostruito dalla distorsione maniacale che lo rode fino al suicido rituale dopo l'arresto per l'omicidio di un sindacalista di sinistra) per giungere ai romanzi di Murakami Ryukio coevi di questo vecchio film di Yanagimachi si riescono a seguire le stesse tappe della sindrome, che porta il singolo a uscire dagli schemi della crudele competizione innescata nella corsa del lavoro con il fattorino rivale, dell'appartenenza esasperata a gruppi in cui il giovane non trova spazio e dell'acquisizione dei segnali provenienti dall'esterno (origliamo l'intera sequenza della vicina insoddisfatta e costretta a fare all'amore fuori campo, fissando lo sguardo vacuo del protagonista con un fastidioso vagito disperato di bimbo che aggiunge squallore al quadro).

Infatti gli unici momenti di interazione con il mondo avvengono con un altro emarginato e quando gli viene meno questo riferimento, perché incarcerato come ladro, si aggrava la sua patologia, accennando ai problemi anche di riconoscimento della omosessualità latente in una società machista come quella a cui faceva riferimento Mishima Yukio, un altro che ha individuato soluzioni reazionarie al proprio disagio e al venir meno delle certezze tradizionali. L'altra figura che potrebbe trovare una possibilità di incontro con il ragazzo è la donna storpiata da un tentato suicidio ("Ho tentato di morire, ma non ci riesco. Voglio che mi dimentichi")

Come avviene per Oe Kenzaburo, ciò che è centrale nella narrazione è il bisogno di evidenziare il delirio di onnipotenza che coglie giovani imberbi e senza riferimenti: in entrambi i casi sono palesi i motivi di tanta divaricazione della ragione e tutti insiti nelle strutture sociali.

"Il panico di cui la metropoli è colma diventa un organo interno al mio petto, mentre grido spicco un salto, mi butto contro il muro, cado a faccia in giù sul pavimento con un rumore sordo, lancio un grido spezzato, No! No! Non voglio essere costretto a diventare una nullità, l'Imperatore mi abbandonerà per sempre! Non costringetemi, non costringetemi con la forza in quello schifoso mondo lì fuori, No, No, No! Condannatemi alla pena di morte, subito, adesso, chiamate il boia, uccidetemi."
(Ibidem, p.140)

Il mondo giapponese trasmette panico ai suoi figli più deboli, i quali finiscono con il diventare preda di pulsioni reazionarie, quando vedono frustrate le loro velleità di auto-affermazione per sfociare invariabilmente nelle pulsioni di auto-annientamento: così si spiegano le telefonate minatorie che terminano con risa isteriche, uniche manifestazioni fini a se stesse del disagio, minacciose in un universo simbolico personale e assolutamente impermeabile al mondo esterno preparatorio di quelle messinscena, che lasciano svuotato il mitomane perché in realtà sono rivolte a se stesso: una dimostrazione di potenzialità distruttive per rimuovere il muro eretto formalizzando mappe rimpinzate di schedature (segnale di un bisogno di controllo generale), segni e riferimenti significanti solo nel codice del giovane, il quale ripete tutte le tappe di Sebuntin (Il Figlio dell'Imperatore, Marsilio), scritto da Oe nel 1961.