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Il vincitore - The winner
Anno: 1996
Regista: Alex Cox;
Autore Recensione: Luca Aimeri
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 05-11-1997


 The Winner (Il Vincitore), di Alex Cox. Sceneggiatura, Wendy Riss, dalla sua commedia "A Darker Purpose". Con Rebecca De Mornay (Louise), Vincent D'Onofrio (Philip), Richard Edson (Frankie), Saverio Guerra (Paulie), Delroy Lindo (Kingman), Michael Madsen (Wolf), Billy Bob Thornton (Jack), Frank Whaley (Joey). Usa, 1996. Dur. 1h e 32'.

Philip è a Las Vegas. Vuole suicidarsi, ma qualcosa lo attira al tavolo da gioco: e vince. Non solo: inizia a vincere, con regolarità, sempre. Ogni volta che tocca un tavolo da gioco, Philip vince montagne di fiches. Philip vince perché non ha niente da perdere. Philip è una sorta di Re Mida dei dadi e della roulette: vince, fa vincere, vince ancora, e fa ancora vincere, ma sempre e solo di domenica. E quando sei uno che va forte, a Las Vegas, iniziano ad appiccicartisi addosso tutta una serie di personaggi appartenenti alla categoria dei parassiti: perdenti, ladri, scrocconi, indebitati, belle donne dalle curve pericolose, ecc. Ma Philip è un innocente semplicione: non bada al denaro, cerca qualcosa d'altro. Crede di trovarlo nella bella Louise, di cui si innamora follemente: senza sapere a quali guai andrà incontro. La Las Vegas di Alex Cox sembra ammorbata più dal vizio della truffa che da quello del gioco: o , più semplicemente, le due cose coincidono, facce della stessa medaglia che si alimentano reciprocamente senza soluzione. Black-comedy come da copione: humor nero serpeggiante attraverso segmenti narrativi che si intersecano negli arzigogolati disegni di un Destino-a-flashback che non lascia scampo ai personaggi, incastrati in una tela di ineluttabilità tinta di grottesco rispetto al modello noir di derivazione. I toni si alternano secondo la formula consolidata della commedia nera: e tuttavia con una dominante (spudoratamente sopra-le-righe) vena di melò rosa-shocking che, contrapposta senza mezzi termini al cialtronismo sgangherato e crudele degli sfruttatori del personaggio centrale, sembra sbilanciare "The Winner" verso un moralismo naïve, al limite del fastidioso semplicismo. Ma su tale impronta lo sceneggiatore/commediografo Riss insiste: infila un rischioso tunnel magico caricando di simbolismi elementi e situazioni, svelando il proprio gioco, senza mezzi termini, nel finale misticheggiante... Ed è, con molte probabilità, proprio tale sfacciataggine a riscattare il lavoro nel complesso: surrealismo e pop entrano in cortocircuito psichedelico mentre, come in una tragedia al neon tra sipari di plastica, Philip gioca il suo ultimo gettone luminescente sotto lo sguardo di un deus-ex-machina che stacca la spina nella città-sistema che, proverbialmente, non si spegne mai. Per il resto, la black-comedy scivola, nonostante qualche rallentamento e calo di tensione nella parte centrale, su binari standard popolati di personaggi-cliché (dark-ladies debordanti, gangster sentimentaloni, boss introspettivi e dispensatori di ovvie verità, ecc.) che tendono a svelarsi attraverso il monologo e, più in generale, attraverso un rapporto giocoso (e meta-linguistico) con la Parola; che sorprendono nella loro capacità di condurre doppi-giochi a dispetto della apparente pochezza del quoziente intellettivo; che sono improvvisamente colti da devastanti accessi di violenza; che si rapportano alla morte con una intimità inquietante, trasportando e sezionando cadaveri come oggetti; che seguono le brusche sterzate di una esigente predestinazione con indifferenza eroica; che vanno incontro al massacro con la spavalderia di un condannato al patibolo scazzato, che non vuole altro che farla finita. Alex Cox anima il baraccone con ironia, contrappuntando la materia drammatica con aperture in sapore di sperimentalismo che, oltre a rispondere alla formula del "genere" secondo la quale all'arguzia di scrittura corrisponde una ricercatezza formale spregiudicata, sembrano quasi parodiare le accelerazioni "alcooliche" verso punti di fuga confusi, irrangiungibili, di un'altra tragica Las Vegas, quella di Mike Figgis di "Via da L.V.". Ma Cox non spinge eccessivamente in questa direzione: piuttosto la sua attenzione sembra essere attratta, e più volte vi si sofferma esplicitamente, da un lavoro su inquadrature significative, sintomatiche della realtà in cui si svolgono le avventure dei suoi losers... le villette a schiera, perfettamente identiche, che compongono uno spazio omogeneo, una distesa a macchia d'olio di cemento senza sbavature, costituiscono quadri paradigmatici di un meccanismo omologante che affonda le proprie fondamenta in una anonima, silenziosa, piatta, ammorbante paranoia senza via d'uscita. Spazi abitativi deserti e spettrali - come la distesa arida su cui giacciono - contrapposti ad interni sovraffollati di casinò tutti uguali se non per il nome esotico che li segnala. La realtà si infiltra, attraverso questi squarci, nella finzione, la supporta, la ispessisce: e risulta più delirante di qualsiasi black-comedy.