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Hollow man
Anno: 2000
Regista: paul verhoeven;
Autore Recensione: Alberto Corsani
Provenienza: Usa;
Data inserimento nel database: 21-11-2000


http://cinemah

 

         Nel cuore della vecchia Napoli, zona San Domenico, il palazzo Sansevero ospita una sorta di museo privato, un tempo sacrestia della cappella Sansevero. Qui giacciono all’impiedi due sventurati, per alcuni servitori della casa patrizia, sacrificati agli studi di fisiologia del padrone, per altri la moglie e l’amante del musicista Gesualdo da Venosa. fatto sta che i poveretti, non si sa bene di che morte morti (ma la vulgata su Gesualdo dice che avendo trovato la moglie a giacere con l’amante il musicista si accanì sui due con decine di coltellate; e poi, racconta il film di Herzog «Tenebre» di qualche anno fa, proprio dedicato a Gesualdo, per colmo di orrore, si dice anche che un monaco che passava di lì, visti i due cadaveri, s’approfittò di entrambi, senza fare troppe distinzioni).

In ogni modo l’interessante è che la vista dei due corpi, ritti in due teche, come dice una guida ormai obsoleta alla città, «è sconsigliabile a persone troppo sensibili ed emotive». Confermo il carattere splatter dello spettacolo, il cui effetto è dovuto a un processo non meglio identificato. Sempre la guida: «... sino ad oggi gli scienziati non sono stati in grado di ripeterlo – anche perché forse non è così facile trovare chi si presta... – né sanno rendersi conto del modo in cui si sia potuta ottenere la pietrificazione dell’apparato digerente e del sistema circolatorio». E proprio questo pare essere stato lo scopo del cruento esperimento: rendere visibile l’apparato circolatorio.

         Che c’entra con l’«Uomo senza ombra»? C’entra per il fatto che proprio su questo paradosso si gioca la vicenda; sul discrimine tra visibile e invisibile, ma anche sul gioco delle pertinenze fra ciò che è utile o indispensabile vedere e ciò che non lo è. L’équipe di ricercatori guidata da Sebastian Caine vuole approdare alla realizzazione dell’invisibilità, ma quel che ottengono strada facendo è, per lo spettatore, molto più interessante: invece di occultare, il corpo si disvela; una volta sgusciato il sistema-corpo appare con i suoi organi e progressivamente con l’intrico idraulico di vene e arterie; anzi, all’inizio di ogni procedimento, che si tratti della scimmiona o di Sebastian stesso, a comparire sono proprio i vasi sanguigni e, prima ancora, l’itinerario del contenuto della fiala; anzi, è proprio il liquido iniettato che realizza la mappatura del corpo, che disegna come siamo fatti. Dopodiché, sparito il tutto, saranno gli indumenti a disegnare da fuori il corpo stesso. Un effetto contrario a quello dei fantasmi di «Topolino nella casa dei fantasmi», i quali, non a caso, non sono fantasmi ma contrabbandieri e, cosparsi di polvere fluorescente per rifulgere nell’oscurità, si mettono addosso vestiti e coperte per scomparire.

         Il film peraltro indulge al didascalismo e appesantisce con battute di maniera, anche se attuali, il discorso uomo-scienza: i riferimenti di Sebastian a Dio (tu non puoi essere Dio, dice a uno dei collaboratori, perché Dio sono io) sono scontati in un momento in cui si dice che l’uomo cerca di sostituirsi a Dio (si veda la clonazione, l’eutanasia e quant’altro). Peccato, perché un qualche riferimento più sottile lo si poteva trovare; io lo trovo nel libro di John Hull, australiano professore di teologia, diventato progressivamente cieco per malattia, che paragona la propria condizione all’autore di un Salmo (il 139) che esalta nella sua lirica la potenza di Dio, che è in grado di vedere sempre l’uomo, anche se questi non se ne accorge. Dice Hull (Il dono oscuro, Garzanti, 1992) che quella è la condizione propria del non-vedente: sa di essere visto, ma non può vedere da chi; e non essendo cieco dalla nascita, sa bene che cosa significhi vedere o non vedere. Qui starebbe la vera potenza di Dio, in questo senso l’uomo reso invisibile, più che lo scienziato, cerca nella sua «hybris» di avvicinarsi a Dio e competere con lui...