Nel cuore della vecchia
Napoli, zona San Domenico, il palazzo Sansevero ospita una sorta di museo
privato, un tempo sacrestia della cappella Sansevero. Qui giacciono all’impiedi
due sventurati, per alcuni servitori della casa patrizia, sacrificati agli
studi di fisiologia del padrone, per altri la moglie e l’amante del musicista
Gesualdo da Venosa. fatto sta che i poveretti, non si sa bene di che morte morti
(ma la vulgata su Gesualdo dice che avendo trovato la moglie a giacere con
l’amante il musicista si accanì sui due con decine di coltellate; e poi,
racconta il film di Herzog «Tenebre» di qualche anno fa, proprio dedicato a Gesualdo,
per colmo di orrore, si dice anche che un monaco che passava di lì, visti i due
cadaveri, s’approfittò di entrambi, senza fare troppe distinzioni).
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In ogni modo l’interessante è che la vista dei due corpi, ritti in due
teche, come dice una guida ormai obsoleta alla città, «è sconsigliabile a
persone troppo sensibili ed emotive». Confermo il carattere splatter dello
spettacolo, il cui effetto è dovuto a un processo non meglio identificato. Sempre
la guida: «... sino ad oggi gli scienziati non sono stati in grado di ripeterlo
– anche perché forse non è così facile trovare chi si presta... – né
sanno rendersi conto del modo in cui si sia potuta ottenere la pietrificazione
dell’apparato digerente e del sistema circolatorio». E proprio questo pare
essere stato lo scopo del cruento esperimento: rendere visibile l’apparato
circolatorio.
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Che c’entra con l’«Uomo senza ombra»? C’entra per il fatto che proprio su questo paradosso si
gioca la vicenda; sul discrimine tra visibile e invisibile, ma anche sul gioco
delle pertinenze fra ciò che è utile o indispensabile vedere e ciò che non lo
è. L’équipe di ricercatori guidata da Sebastian Caine vuole approdare alla
realizzazione dell’invisibilità, ma quel che ottengono strada facendo è, per lo
spettatore, molto più interessante: invece di occultare, il corpo si disvela;
una volta sgusciato il sistema-corpo appare con i suoi organi e
progressivamente con l’intrico idraulico di vene e arterie; anzi, all’inizio di
ogni procedimento, che si tratti della scimmiona o di Sebastian stesso, a
comparire sono proprio i vasi sanguigni e, prima ancora, l’itinerario del
contenuto della fiala; anzi, è proprio il liquido iniettato che realizza la
mappatura del corpo, che disegna come siamo fatti. Dopodiché, sparito il tutto,
saranno gli indumenti a disegnare da fuori il corpo stesso. Un effetto
contrario a quello dei fantasmi di «Topolino nella casa dei fantasmi», i quali,
non a caso, non sono fantasmi ma contrabbandieri e, cosparsi di polvere
fluorescente per rifulgere nell’oscurità, si mettono addosso vestiti e coperte
per scomparire.
Il film peraltro indulge al
didascalismo e appesantisce con battute di maniera, anche se attuali, il
discorso uomo-scienza: i riferimenti di Sebastian a Dio (tu non puoi essere
Dio, dice a uno dei collaboratori, perché Dio sono io) sono scontati in un momento
in cui si dice che l’uomo cerca di sostituirsi a Dio (si veda la clonazione,
l’eutanasia e quant’altro). Peccato, perché un qualche riferimento più sottile
lo si poteva trovare; io lo trovo nel libro di John Hull, australiano
professore di teologia, diventato progressivamente cieco per malattia, che
paragona la propria condizione all’autore di un Salmo (il 139) che esalta nella
sua lirica la potenza di Dio, che è in grado di vedere sempre l’uomo, anche se
questi non se ne accorge. Dice Hull (Il
dono oscuro, Garzanti, 1992) che quella è la condizione propria del
non-vedente: sa di essere visto, ma non può vedere da chi; e non essendo cieco
dalla nascita, sa bene che cosa significhi vedere o non vedere. Qui starebbe la
vera potenza di Dio, in questo senso l’uomo reso invisibile, più che lo
scienziato, cerca nella sua «hybris» di avvicinarsi a Dio e competere con
lui...