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Harem Suare
Anno: 1998
Regista: Ferzan Ozpetek;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Turchia - Italia;
Data inserimento nel database: 09-08-1999


Harem Suaré

Harem Suare


Regia: Ferzan Ozpetek
Sceneggiatura: Gianni Romoli, Ferzan Ozpetek
Fotografia: Pasquale Mari
Montaggio: Mauro Bonnani
Musica: Pivo e Aldo de Scalzi
Scenografia: Mustafa Ulkenciler
Produzione: Tilde Corsi
Distribuzione: Medusa
Formato: 35 mm.
Provenienza: Italia, Francia, Turchia
Anno: 1998
Durata: 106'
Marie Gillain ... Safiyé giovane
Alex Descas ... Nadir
Malick Bowens
Christophe Aquilon
Serra Yilmaz
Haluck Bilginer
Felicité Mbezele
Nilufer Acikalin
Pelin Batu
Selda Ozer
Gaia Narcisi
Basak Koklakaya
Aya Algan
Ali Basar
------------ Lucia Bosé... Safiyé anziana
Valeria Golino...Anita


Un film conservatore nel senso più retrivo del termine e sotto ogni aspetto: l'assunto iniziale non si discosta per l'intero dipanarsi della vicenda dal proprio pervicace orientamento verso una nostalgica riproposta delle tracce di molle decadenza a toni flou incistati sul più vieto stereotipo dell'harem; il volto rugoso di Lucia Bosè serve per accentuare il rimpianto derivante dal senso di distanza da un mondo perduto, che racchiude tutto l'incanto immaginabile per l'inconscio dell'autore, suggestionato da visioni degne di uno sceneggiato televisivo, a cui funge da degno corollario la irritante presenza di Valeria Golino, commossa dai talvolta vaghi ricordi della vecchia che si precisano attorno a centri focali totalmente privi di interesse, volti ad esaltare la figura della giovane donna, nella cui forza d'animo l'ascoltatrice cerca di confondersi attraverso un abbraccio reso inaccettabile sia per la differente situazione, sia soprattutto dal punto di vista strutturale del racconto: il sistema sotteso al tipo di racconto dovrebbe proprio fondarsi sulla immedesimazione di tutti i personaggi che nel tourbillon di scambi di ruoli finiscono con essere attori, spettatori, ascoltatori appartenenti a tutte le epoche; invece il palesarsi di questo sistema diventa soffocante, anziché dare libertà di narrazione finisce con l'incasellare in ulteriori tipologie noiose personaggi e situazioni calligrafiche. Quel che è peggio è la volontà di esaltare questo sistema narrativo, esasperando artificiosamente le dipendenze di una narrazione dall'altra senza che questo aggiunga valore o scongiuri la prevaricazione del racconto sia sulla storia, sia sui soggetti, sia sui destinatari.

Sì, perché la pecca più grave del film è il tentativo spudorato di rieditare gli antichi fasti di Shahrazàd, riuscendoci soltanto nelle edonistiche riprese nel bagno turco, quando possiamo godere delle grazie di Marie Gillain, noi pure costretti come eunuchi al puro voyeurismo, invece appare inaccettabile e puerile l'uso di una struttura che esalti epicamente il racconto; esplicito a questo proposito il ruolo della narratrice a sua volta inserita nella storia che sembra arrivare al punto di introdurre nella storia la vicenda che si svolge nella stazione e che rivisita quelle antiche stanze del sultano e degli intrighi di cui meno non potrebbe interessarci.

Addirittura si vanta l'importanza non di come si vive, ma di come si narra la propria vita, che in sé è una posizione non censurabile, se non fosse pronunciata con il chiaro intento di soffocare la libertà del lettore sommerso dalla forza del testo che non lascia spiragli, occupa tutti gli spazi, suggerisce ogni spiegazione e insuffla persino i dubbi sulla veridicità del racconto stesso dal suo interno, mostrandoci la rivelazione del suicidio dell'eunuco, mentre alla ascoltatrice principale, alla quale è demandata la nostra immedesimazione (il racconto della anziana ancella essendo rivolto alle ospiti dell'harem, a noi introdotte già da un altro livello di nidificazione), viene edulcorata la fine di colui che più di ogni altro incarna quel mondo, rendendo obliquo e ambiguo l'epilogo, trattandoci come un rotocalco che non può negare il lieto fine. Un metodo che sottrae qualsiasi elaborazione al lettore, volendo occupare l'intero spettro dell'immaginario.

In questo modo si vuole imporre la forza mitica del racconto in funzione reazionaria apparentemente abusando delle forme linguistiche che servono invece a metodi di liberazione dalla dittatura del testo e qui diventano un fattore esponenziale della centralità del narrante ad ogni ulteriore incasellamento. Ben chiaro è il ruolo dei contraenti il contratto essenziale per dare luogo alla narrazione: più volte vengono evocate le tre mele (non a caso premettendo la provenienza divina) che sarebbero destinate al narrante, ai personaggi e all'ascoltatore, ma nel primo caso in cui si officia il rito (nuovamente una imposizione interna al testo dunque) quest'ultima se la pappa di nuovo l'autore sotto duplice spoglia, a sottolineare la sua ingerenza pervasiva in ogni anfratto del racconto e la posizione succube dell'ascoltatore.

È scandaloso che da una dozzina di settimane venga continuamente riproposto questo filmetto da una distribuzione martellante che ha convinto più di un milione di malcapitati ad accorrere alle proiezioni e risulta ancora di più imperdonabile tentare di eternare il mito di una società che faceva della reclusione il fondamento del potere e della subordinazione la sua perpetuazione, un sistema che adesso forse si vorrebbe applicato alla minoranza kurda, tenuta in schiavitù come le giovani dell'harem, mostrate dal film in una condizione invidiabile.


sito web http://www.medusa.it/film/harem/index.htm