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GÜNESE YOLCULUK - Viaggio verso il sole
Anno: 1999
Regista: Yesim Ustaoglu;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Turchia; Kurdistan;
Data inserimento nel database: 13-04-2001


GÜNESE YOLCULUK

GÜNESE YOLCULUK

Viaggio verso il sole

 

Di oggi la notizia di un nuovo morto nelle carceri turche. Si è lasciato morire di fame per protestare contro il razzismo, le condizioni inumane di detenzione, pena comminata spesso per reati di opinione o semplicemente perché appartenente all'etnia kurda...

 



 



Regia:  Yesim Ustaoglu
Sceneggiatura:  Yesim Ustaoglu
Fotografia:  Jacek Petrycki
Montaggio:  Nicolas Gaster
Musica:  Vlatko Stefanovski
Suono:  Svetolik Mica Zajs
Produttore:  Behrooz Hashemian

CAST

Newroz Baz   ..........Mehmet
Nazmi Oirix   ...........Barzan
Mizgin Kapazan   ..........Arzu
Nigar Aktar, Iskender Bagcilar, Ara Guler

Produzione: Istinai Filmler Ve Reklamlas Ltd - Eski Büyükdere Cad. N° 75, TR-80670 Maslak, Istanbul Tel: 212 285 23 22 Fax: 212 276 62 76
partner europei: The Film Company Amsterdam, Medias Res Berlin, ZDF/Arte, Fabrica Durata: 104'
Anno: 1999
Nazione: Turchia - Kurdistan

Distribuzione:IFR C/o Celluloid Dreams 24, rue Lamartine, F-75009 Paris, France Tel: 33 1 49 7003 70 Fax: 33 1 49 70 03 71
per l'Italia: Istituto Luce



Premi: Festival di Berlino 1999: Premio Blaue Engel, Premio Peace; Festival di Troia 1999: Premio Speciale della Giuria, Premio Ocic; Festival di Istanbul: Premio Miglior Regista e miglior film Turco, Premio FIPRESCI, Premio del Pubblico; Festival di Gerusalemme 1999: Menzione speciale della Giuria; Festival di San Paolo 1999: Menzione Speciale della Giuria; Festival di Valladolid 1999: Premio Speciale della Giuria

Selezioni: La Rochelle Film Festival (1999); Karlovy Vary Film Festival (1999), Edinburgh International Film Festival (1999), Festival International des Films du Monde de Montréal (99), Toronto Film Festival 99, Festival International du Film de Flandre (99), European Film Awards Berlin (1999)

Verso il sole: lo stesso percorso totalitario intrapreso dall'Europa per entrare in Turchia.

 

Facile seguire il filo della suggestiva immagine ricorrente: un riflesso su una superficie liquida che scompone e frammenta le figure, diluendo i colori, dilavandoli, sfumandoli. Indefinibile, difficilmente distinguibile, confuso, dove l'immagine è facilmente scomponibile da qualsiasi evento: tutti processi applicati ai singoli individui, negati nella loro identità culturale kurda.
Ma non solo, è anche prolettico dell'epilogo e traspare una metafora del mondo sommerso, annegato fisicamente e soprattutto culturalmente nei laghi dell'Anatolia.
In questa cornice si sviluppa un primo intreccio localizzato a Istanbul che ha un andamento verticale di vertiginosa caduta nell'abisso persecutorio, razzista. Poliziesco, a partire da una situazione di normalità incosciente (immersa in un'altra forma di liquidità, data dall'inconsapevolezza e che ha come riferimento dei riflessi di un mondo a parte) sconvolta da un piccolo evento che travolge l'esistenza di Mehmet, come avviene quando su una superficie liquida capita una piccola catastrofe che stravolge l'intera immagine riflessa sulla superficie.


L'attenzione della regista si focalizza sull'intento di elencare i singoli tasselli di un'esistenza media: le convinzioni trovano la loro enunciazione per contrasto. Ad esempio: si mette in scena un modo di intendere l'indipendenza femminile di tipo occidentale identificandola con la donna libera sul tram, che parla in inglese con l'accompagnatore, per mostrare per contrasto il rapporto inibito tra i due ragazzi e l'ingerenza della famiglia e dei paternalistici datori di lavoro, che leggono addirittura i fondi di caffè, mostrando la distanza tra superstizione e istanze. Questo è un altro aspetto della società turca che emerge senza proclami: il paternalismo si evince da quello che è ripreso traendolo da una realtà plausibile nei sistemi neorealistici di tratteggio delle figure (in particolare per le parti che vedono la ragazza in scena). Per il giovane addetto del gas la mdp decide di adottare un tipo di ripresa che per freddezza del taglio di inquadratura sembra ricalcare il cinema tedesco degli anni 70: consente di seguire lo sviluppo del plot e l'evoluzione del personaggio non attraverso i primi piani, ma inserendolo in campi totali che sfruttano la chiusura della bella città del Bosforo. La scelta di introdurre strumenti che possono avere valore simbolico non disturba, anzi agevola nel processo di liberazione delle coscienze: che il giovane porti sempre con sé la sonda che consente di percepire i rumori sotterranei, che la terra conduce, denota una sensibilità particolare per mondi nascosti sotto la superficie; sapientemente alternati con le più evidenti increspature di quella superficie: l'esaltazione post-partita che scatena la carica all'alieno, il kurdo, come da indicazione del potere. La terza fonte per dare forma alla descrizione di una società autoritaria e soffocante sono gli inserti della televisione: lo sciopero della fame dei detenuti scandisce le sequenze del film ("52° giorno di sciopero"), le manifestazioni e la repressione scorrono in b/n , salvo poi vedere quelle immagini in soggettiva che ci travolgono dal vivo, quando Mehmet si trova sulla traiettoria di una carica, coinvolgendoci nel destino dei kurdi. Infatti è sul tv che assistiamo all'arresto di Berzan, ma l'attenzione di Mehmet viene attratta dal ricordo della disavventura vissuta insieme, inseguiti, braccati nella notte dall'intolleranza razzista, e patita da Mehmet anche e soprattutto per l'aspetto troppo scuro della pigmentazione della sua pelle.

Sconvolgente l'uso della grande piazza, dapprima vuota e poi luogo in cui confondersi, ma anche per riconoscersi: basta saper vedere ed essere sensibili. Luogo dove addirittura può scattare la solidarietà. Ed è la preparazione al momento più aulico: l'inquadratura del ponte come se fosse Brooklyn, un momento disteso, di reale amicizia tra due sconosciuti, nel quale sapientemente viene inserito un altro dettaglio, quello più toccante del racconto verbale, meno efficace delle immagini ma utile per definire le condizioni in cui vivono le popolazioni kurde: saggiamente il discorso esula dall'astrattezza e rientra nella sfera personale, infatti Barzan narra della propria famiglia e della distanza, ma soprattutto introduce un'immagine evocata per ora soltanto a parole: le sue montagne ("Se tu le vedessi…").


Fino a questo punto il film ha ruotato attorno al placido golfo: il mare è sempre stato sullo sfondo, ma anche questo è un momento di preparazione al contrasto dell'inferno, a cominciare dalla quotidianità della stamberga condivisa in un sottoscala di un'officina con altri co-inquilini, e arrivare poi al baratro in cui cade Mehmet, cacciato dai compagni per non dover essere coinvolti nella sua disgrazia esplicitata dalla croce rossa sulla porta, metodo di discriminazione nazista per individuare chi va emarginato. Quanto si trasforma la cornice che aveva incorniciato l'insegnamento tenero della giovane che sul terrazzo in faccia al Bosforo gli aveva spiegato cosa significasse: "Ich liebe dich", di nuovo inserendo un tassello simbolico, che non disturba; una dichiarazione che poi si riproporrà carica di consapevolezza e meno spensierata di quella cornice idilliaca. Infatti molto ben calibrato è il montaggio dello sciagurato arresto di Mehmet, che lo precipita al contrario in una cella buia con rumori sospetti e botte improvvise e all'uscita scoprire che vive dentro una fonderia non ci riporta all'armonia fittizia che coincide con la realtà della maggioranza dei turchi ignari come era Mehmet prima della fortuita caduta in disgrazia, esempio di come la marginalizzazione sia sempre in agguato, una questione di coincidenze.

Interessante che Ustoglu non abbia taciuto l'impaurita rassegnazione e l'abbia annotata senza criteri di giudizio di alcun tipo, si limita ad annotare: "Ci mancherai, ragazzo di Tire", dicono i coinquilini quando lo invitano ad andarsene. E già nella battuta è compreso il meccanismo da trincea che fa in modo di innescare alcuna relazione di affetto per non soffrire al momento del distacco, probabile perché indipendente dalla propria volontà, eterodiretta sotto i regimi. Quindi il giovane non è nemmeno Mehmet, ma "un ragazzo che viene da Tire", facendo coincidere la sua diversità con la provenienza.

È talmente graduale la presa di coscienza che solo a quel punto ha senso dilungarsi sull’episodio che trascorre dalla centralità di Mehmet alla positiva figura del kurdo Berzan, impegnato a salvare un’aderente al Pkk: non interessa tanto la tensione della situazione sul bus, quanto documentare i sistemi di controllo, inaccettabile condizione di stato di polizia, la calma reazione del giovane kurdo di fronte alla situazione di allarme e la rete di resistenza, sotterranea (ma percepibile con strumenti di rilevazione, incomprensibili per la polizia, che usa invece i soliti violenti metodi di morte e repressione). Berzan al momento della sequenza che inserisce lo squarcio sul mondo della clandestinità è già stato introdotto: la sua rocambolesca fuga e la riapparizione attraverso la tv lo colloca in una dimensione di personaggio destinato a coprire il ruolo di deus ex machina. Infatti egli emerge tra le pieghe del racconto neo-realista – utile per svelare ai non turchi la quotidianità di Istanbul e per far immedesimare i turchi in quello stato di cose – al momento opportuno per sospingere il racconto verso il suo sviluppo naturale: una tragedia con connotati epici che nasce dal realismo. In questo modo la fiction si integra con l’esigenza di documentare tutti gli stadi della discesa all’inferno; quella è la vera denuncia, poi il road movie finale verso l’oriente delle montagne del Kurdistan è un’allucinazione spettacolare che corona il lirismo della tragedia, è uno spazio narrativo e poetico che usa molteplici mezzi di trasporto dal furgone al treno, fino al carrettino trainato da un cavallo, struggente, ma universale e un po’ generico che rende Mehmet espressione di una figura retorica stereotipa, mentre nella prima parte il suo essere soggetto in progressiva crescita lo rende unico e non universale, solo nella notte con la sua tv, surrealmente a discorrere con una troia che lo abborda, unica compagna di una situazione disperata, nella quale non capisce neanche ancora bene come ci sia finito e nemmeno quali risvolti debbano ancora venirci mostrati tramite il suo personale percorso tra i sistemi di persecuzione razzista della etnia kurda, a cui lui non appartiene.


Invece lo stato di semitrance in cui si viaggia nel territorio devastato del Kurdistan turco si fruisce come un sogno, anzi un incubo che affastella incontri con persone svuotate, che si aggirano senza meta, albergatori laconici, rovine; un’allucinazione bellissima che prende spunto dalla promessa di Berzan: "Un giorno ci tornerò". Una sorta di Apocalypse now senza Kurtz, ma con un morto che ci accompagna e che ha urgenza di farsi riaccogliere dalla sua terra; senza spettacolo sostituito dai toni grigi dei classici road movie (Radio on è il riferimento immediato, per la tristezza di questa lunga veglia funebre in un cielo plumbeo), con i tipici incontri che prevede il mettersi in viaggio (e sono rispettati) e che diventa l’idea finale del film: il nostos post-mortem. Il viaggio con la bara verso il nulla in mezzo al dolore fatto paesaggio; un incubo nel quale non si può seguire il consiglio di Berzan: " Se hai gli incubi, girati dall’altra parte", non si può perché si è avvolti nell’atmosfera grigio cupo dominante nel gelo dei monti del Kurdistan. Sicuramente questa seconda parte è quella suggestiva, ma se non avessimo vissuto con Mehmet lo stupore e lo sgomento delle croci incise sulle porte dei colpevoli di essere kurdi, rimarrebbe un viaggio allucinante costellato di carri armati, mentre così diventa una denuncia priva dei toni retorici dei militanti rivoluzionari, ma proprio per questo anonimato dei protagonisti l’Europa non può rimanere sorda come di fronte al caso Ocalan, venduto da D’Alema.

"Dovresti vedere le mie montagne" sembra che dicano le inquadrature al di là del parabrezza durante il trasporto funebre lungo migliaia di chilometri e posti di blocco e bambini che compaiono dal paesaggio – o forse dai riflessi delle ricorrenti pozzanghere d’acqua – e da quello vengono risucchiati alle prime avvisaglie di militari e imboscate, come i protagonisti di Zamani barayé masti asbha (Il Tempo dei cavalli ubriachi, Kurdistan iraniano, 2000), precocemente costretti a maturare e trasportare generi di cui non si potrebbe sospettare il carattere rivoluzionario – i quaderni in quel caso, semplici giornali locali in questo, ma scritti in una lingua negata – o addirittura a fare i contrabbandieri come nel film di Barman Ghobadi, ma anche come in Lavagne.

La regista riesce così a coniugare epica e impegno; immagini documentarie e lunghe inquadrature in campo totale da un lato e primi piani di storie d’amore e di terrore quotidiano dall’altro: le prime non isolano i personaggi, ma li rendono omogenei alla realtà, soprattutto fino all’obitorio, quando s’inizia il viaggio personalissimo attraverso il quale Mehmet vede, tocca, percepisce con tutti i sensi le rovine, lo svuotamento, la distruzione matematica di una cultura: la sua maturazione giunge a compimento con l’ultimo incontro in treno con il suo alter ego, un militare che proviene dal suo stesso paese, al quale non rivela di essere concittadino, sentendosi forse ormai realmente kurdo, fino a culminare con l’arrivo laddove c’era Zorduç, il villaggio di Berzan, e quindi si prepara alla originale forma di cerimonia funebre, solitaria; un tristissimo epilogo del lento ritorno a casa… che non c’è più.

Filmografia:

1994: The Trace
1992: Hotel (short),
1990: Duet (short),
1987: Magnafantagna (short),
1984: Bir Ani Yakalamak (short)