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Adventures in Third Dimension
Anno: 2000
Regista: IMAX;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: GB;
Data inserimento nel database: 17-07-2000


ENCOUNTER IN THE THIRD DIMENSION

ENCOUNTER IN THE THIRD DIMENSION

IMAX Cinema

http://www.bfi.org.uk/imax

Non ha potuto fare a meno di andare al S.Luís a vedere gli Stereoscopici in tre dimensioni, s’è portato a casa, per ricordo, gli occhiali di celluloide che bisogna usare, verdi da una parte, rossi dall’altra, questi occhiali sono lo strumento poetico, per vedere certe cose non bastano semplicemente gli occhi.

(José Saramago, L’anno della morte di Ricardo Reis, Torino, Einaudi, 1996, p.311)

Essenziale è la cornice e il British Film Institute in questo si è applicato strenuamente: una sala iperaccessoriata, atmosfera da antro delle meraviglie e uno schermo altissimo e molto luminoso in cui perdersi, che risulta però al servizio della sua negazione. Infatti l'assunto che immediatamente dopo la prima spettacolare animazione viene ribadito è che ci si libera delle costrizioni della bidimensionalità per tuffarsi in una forma di spettacolo più coinvolgente.

Un assaggio viene offerto dai titoli di testa che sottolineano dapprima le fonti sonore, palesando l'atmosfera avvolgente e illusionistica: appaiono le immagini di alcuni altoparlanti dislocati per ogni dove nella sala e che dovrebbero denunciare la provenienza delle innumerevoli fonti sonore, accentuando l'effetto d’immersione che poi diventa anche visivo, poiché in qualunque poltroncina – comodissime – ci si trovi, sembra di essere il fulcro su cui puntano tutti gli elementi che provengono dal mondo incantato in cui si viene inseriti. A tal punto risulta immediato il riferimento all'Arrivo del treno a La Ciotat e al panico degli spettatori di un secolo fa che ci viene riproposto durante il film come citazione dotta e replica dello stesso spavento con un treno iperrealistico che investe il pubblico.

L'inizio cartoonistico vale il corto che preludeva all’avventura di Roger Rabbit: divertente, e la condizione di totale animazione senza riprese dal vero accentua le caratteristiche, in primis quella della vocazione a proiettarsi verso lo spettatore, inglobandolo all'interno dell'immagine. Di questo si tratta: un parco di divertimenti, preso a modello per permettere di cogliere quanto grande sia la percezione non solo visiva, ma tattile di questa tecnica di riproduzione della realtà. Potrebbe diventare oggetto per una nuova puntata della meditazione filosofica sul soggetto, in questo caso la sua fenomenologia deviata nella sua funzione di percettore di realtà, nell’epoca della riproducibilità dello spazio, che risulta sostituito da quello artificiale: una collettiva esperienza simultanea della realtà virtuale.

Quello è l'effetto più adottato: proiettare una scheggia, un frammento o un blocco intero dal centro dell'azione, e dunque dall'interno più intimo della prospettiva rinascimentale (altro riferimento citato e animato), verso l'esterno con un movimento centrifugo che ci pone sulla traiettoria dell’oggetto espulso, essendo quel mondo creato dal nostro punto di vista; è dunque il risultato di ciascuna inferenza che ognuno di noi fa interagendo con le immagini che appaiono non più proiettate da un punto esterno al mondo, ma appunto provenienti dal nostro interno. Si diventa una monade che ha visioni comuni con altre monadi, caricate sullo stesso vagone delle montagne russe.

Sì, perché – come spesso avviene nel caso delle innovazioni – si tenta di illustrarle saccheggiando il mondo dei divertimenti: è avvenuto con i pionieri del cinema, ma ancora prima con il precinema e le lanterne magiche. Quell'immaginario è il riferimento obbligatorio di questo film, che ha l'esplicito intento di illustrare un mondo artificiale, di fantasia, ma iperreale e quindi trova naturale ambientare la semplice vicenda in un laboratorio ricavato dai B-movies SF degli Anni 50 – proprio perché quello è il periodo di massimo fulgore dei film da vedersi con gli occhialini –, o piuttosto con qualche eco da Frankenstein, dove uno scienziato si produce in un excursus sulla storia del 3D a partire da pitture rupestri e Rinascimento, corredando con spezzoni le allusioni ai film o la spiegazione della tecnica utilizzata a cominciare dall'arcaica doppia stampa con dominanti rosse e verdi per i film in b/n fino alle attuali sofisticate stampe multicromatiche. Lo scienziato, come in molti impianti narrativi disneyani ha un assistente, che è un robot, al quale vengono affidate mansioni di accompagnatore e sperimentatore: attraverso i suoi circuiti vediamo il mondo racchiuso nel simulatore, una specie di toboga che si inerpica e s'avventa dentro a paesaggi incredibili, sperimentando il percorso inverso a quello dei frammenti scagliati contro lo spettatore a dimostrare che si può ricreare qualunque effetto ed in effetti dentro il simulatore sono concentrate tutte le caratteristiche innovative della visione in 3D. Particolarmente suggestiva è l'immersione in acqua che riproduce completamente l'effetto liquido, come anche la mantide metallica – la sua struttura è costruita con la tecnica inaugurata da Abyss e Terminator2 (un’ulteriore raffinatezza per il piacere dell’occhio) – che va in frantumi dopo averci minacciato con un aculeo a tal punto realistico che si prova la sensazione di averlo ormai fin dentro il cervello (un effetto che la punta acuminata incrementa, poiché le sue ridotte dimensioni impediscono di avere la certezza della profondità e quindi potrebbe essere già pericolosamente dentro l'occhio o trovarsi ben distante da esso). Gli ambienti sono innumerevoli, manca l'ispirazione per raccontare una storia coinvolgente al pari delle immagini, inanellate dal trait union posticcio del laboratorio avveniristico immerso nei canoni filologici del passato.

 

A questo proposito cade a pennello il riferimento a Metropolis: da un’apparecchiatura che produce energia si va componendo più volte l’immagine di una donna che fuoriesce da anelli di elettricità, come nel film di Fritz Lang, la differenza è che una volta acquisite fattezze umane, prende a cantare discendendo una scala in atteggiamento provocante, finché non si dissolve in mille frammenti di illusione, mantenendo in questo la coerenza con il messaggio originale del capolavoro espressionista.

 

Si diceva all'inizio che lo schermo è il centro dell'attenzione poiché è ciò che sembra sparire ed infatti l'ambiente si presenta dapprima come attraverso una cortina che pare appannare la profondità del laboratorio comprimendolo nelle due dimensioni del sipario; poi svanisce a rivelare quale differenza c'è tra le due visioni. E viene la curiosità di scoprire cosa se ne potrebbe ottenere affidando questa tecnica a qualche manipolatore delle emozioni forti come Wes Craven.