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El dia que murio el silencio
Anno: 1998
Regista: Paolo Agazzi;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Bolivia;
Data inserimento nel database: 08-11-1999


El dia que murio el silencio

El dia que murio el silencio


Regia: Paolo Agazzi
Sceneggiatura: Guillermo Aguirre, Paolo Agazzi
Fotografia: Livio Delgado, Guillermo Medrano
Interpreti: Darío Grandinetti, Gustavo Angarita, Elías Serrano, Norma Merlo, Guillermo Granda, Maria Laura Garcia
Produttore: Martin Proctor
Produzione: Pegaso Producciones
Distribuzione: Media Luna / Alter Markt 36-42 / D-50667 Köln / GERMANY / Tel: (49-221)139-2222 / Fax: (49-221)139-2224
Provenienza: Bolivia
Anno: 1998
Durata: 108 min.




Il realismo magico amalgama la commedia all'italiana con il racconto morale assegnando un ruolo di deus ex machina allo scrittore al quale il regista finge di abdicare la narrazione della vicenda; non si tratterebbe di una singolare novità, se non capitasse che talvolta l'immaginario del narratore sia davvero in grado di condizionare gli eventi e d'altro verso talvolta invece questi si impongano al racconto, subordinandolo alle proprie insorgenze. Questo senza mai avvertire lo spettatore su chi realmente stia menando le danze: la fantasia fervida dell'autore o la quotidianità disorientata da minime turbative che scatenano circostanze bizzarre.

Ma ad un ulteriore livello in trasparenza Agazzi vuole mostrare la propria presenza con due espedienti: l'uno è quello di tratteggiare la figura del romanziere come una sorta di Gabo Marquez isolatosi con le sue curiose fissazioni nel paesino di Villaserena per trarre spunti, l'altro è il piccolo, ma importante spazio assegnato alla scacchiera: l'intero racconto, a parte l'ambito ritagliato a vantaggio della rappresentazione della creazione artistica, procede come una partita a scacchi, dove ogni mossa introduce un registro narrativo tipico della narrazione realista, comica per vocazione e dall'atmosfera magica. Inoltre un gesto denuncia l'atteggiamento dell'autore: nel momento in cui si va preparando l'epilogo lo scrittore con il panama in testa, ed una gran barba grigia come da stereotipo, ruota la scacchiera posta a fianco della macchina da scrivere. In quel frangente aveva agito da osservatore, lasciando imporre certe mosse alla vicenda, che lo suggestionava, oppure al massimo orientava gli sviluppi facendosi guidare dal bisogno di regolare rumori che provengono fino a lui dal movimento del paese (le campane danno luogo all'invenzione dell’incontro tra Abelardo e il prete ad esempio), con la rotazione degli scacchi ci avverte che di lì in poi interviene da demiurgo sul racconto. Non sappiamo se esiste prima il paese o prima la sua immaginazione, però lo scrittore, posta la parola fine sul racconto svanisce (la valigia rimane sul sentiero), ma dopo la sua scomparsa appare ancora Abelardo spostatosi a portare zizzania a Villa Armonia, un'altra cittadina, un nuovo racconto, ma probabilmente anche un diverso scrittore. Uguale rimane l’immaginario sudamericano.


Il gioco metalinguistico è mantenuto sempre su toni molto leggeri in modo da lasciar godere della levità e comicità del racconto, però spesso s'insinua la frase che spinge il pubblico a staccarsi dai fatti a cui assiste, per partecipare alla concezione dello spunto da cui riprende la storia (spesso utilizzando il punto di vista del negozio gestito da Doña Amelia sotto i portici, luogo che per costituzione fisica più facilmente incornicia il momento di partenza della nuova sequenza-capitolo del romanzo). E questo può avvenire esplicitamente con le domande che vengono poste a Don Oscar, il romanziere, dal bracciante innamorato della bella Celeste; questo giovane è introdotto con accortezza: è il tramite tra il mondo della finzione e quel luogo sospeso in cui l'autore crea, una casa isolata, fuori dal mondo, dove un complicato sistema gli conferisce i crismi della sregolatezza artistica (di nuovo le strutture della scrittura trovano un'immagine che le raffiguri nel sistema di dighe che convogliano l'acqua per fingere la pioggia, rumore indispensabile allo scrittore per creare). O tramite lui o con repentine incursioni presso Doña Amelia il demiurgo ottiene le informazioni utili per proseguire la storia, ed è interessante la notazione inserita dalla commerciante, che lo invita a non farsi scorgere da Abelardo, l'oggetto del suo racconto: Don Oscar non deve essere riconosciuto o avere rapporti con la sua materia, ne verrebbe condizionato, come in effetti avviene.

Appare tante volte l'autore e questo è un sintomo che è troppo coinvolto dalla storia, tanto da non accorgersi di avere la chiave a disposizione: "Questi personaggi mi sono venuti a noia". Saranno i bigliettini che quegli stessi innamorati si scambiano di nascosto (anche da lui) a riavviare il meccanismo del racconto. Con maestria il regista manovra l’ingresso all'interno del gioco; Agazzi giustappone un antefatto di pochi minuti per poi riprendere con la medesima inquadratura dei titoli il vero inizio dell’intreccio: un camion che percorre la tortuosa stradina per arrivare a Villaserena, da questo secondo arrivo, descritto nel foglio inserito nella macchina da scrivere, si avverte la presenza del narratore ("Mezzo matto per il troppo scrivere", ci informa Doña Amelia), introdotto fuori campo dall'unica didascalia: "Qualche anno dopo". Questo prologo contiene a sua volta un livello di finzione che prepara le innumerevoli scatole cinesi: si tratta di una rappresentazione teatrale di Shakespeare portata da una compagnia di girovaghi, il cui protagonista scatenerà il parapiglia, trombando una donna sposata dietro il sipario calato, e proditoriamente risollevato, sugli occhi del marito; questo fatto condizionerà la vita di Celeste, la figlia della fedifraga fuggita con il guitto, e quindi di Abelardo, invaghitosi di lei, e del giovane che la libererà, e non casualmente si consuma su un palcoscenico. É finzione, come il resto del racconto nel racconto, e prelude ai molteplici rimandi ad una realtà sfuggente persino quando è parto della nostra immaginazione: "Perché è venuto il forestiero?" "Questo non l'ho ancora scritto".


In questo modo si legittimano le figure tratteggiate con tocchi tipicamente letterari, come la descrizione del vestito nero con sciarpa bianca dell’intraprendente straniero alla ricerca di denaro e potere attraverso canali radiofonici concessi truffaldinamente dalla Chiesa (il prete fornisce il campanile per installare i megafoni completando la prolessi iniziata sullo scrittore infastidito dalle campane) e dal Potere politico (il corregidor permette l’accesso al generatore): un apologo su un farabutto, che sbilancia gli equilibri di un paese perseguendo il proprio interesse in conflitto con la pace sociale. Impiantando i suoi megafoni, che irradiano le trasmissioni per tutto il paese anche in assenza di corrente elettrica, impone l’ascolto a tutti e scatena i più bassi istinti della Villa, una volta Serena: sembra di assistere ai programmi di Mediaset, dove i messaggi promozionali costano un peso, gli insulti due, tutto ha un prezzo e la musica colta è una punizione, per scoprire che i freni inibitori vengono meno di fronte ad un microfono e il livore represso per decenni o le umiliazioni sopportate in silenzio diventano denuncia e desiderio di giudizio collettivo dei torti. Finché una provvidenziale dimenticanza diffonde in diretta su tutto il paese lo scherno del nuovo venuto verso tutto il paese e la confessione delle sue malefatte, scatenando un linciaggio nei suoi confronti da parte di un paese ancora moralmente integro, ancorché arretrato, e capace di individuare il pericolo derivante dall’assenza di norme che regolamentino l’etere. Sorge il dubbio che la polemica del racconto morale investa pure la modernizzazione, però alcune tirate retoriche utili per connotare come progressista l’interlocutore dello scrittore, eroe positivo e romantico, farebbero escludere una demonizzazione della tecnologia di sviluppo, quanto un’avversione per l’uso personalistico ed egoista che ne fanno certi faccendieri privi di scrupoli.

Esilaranti momenti: il miracolo raccontato in diretta del novantanovenne che durante l’estrema unzione viene risvegliato dai sibili delle prove tecniche di trasmissione, i molti episodi mai scollacciati, nei quali i cittadini vengono colti dalle rivelazioni radiofoniche, le transazioni in cambio dell'accesso al mezzo di comunicazione, che ricordano i primi anni della radio libere.
Anche per quest’aspetto comico (lasciamo stare lo spessore dell’attenzione metalinguistica e il gusto del realismo magico) la differenza con San Isidro futbal Club è che il tentativo di Salvatores e soci di rifare l’atmosfera dei latinos tra italiani con uno script di Cacucci risulta soltanto una caciara priva dell’anima sudamericana, una copiatura priva della componente essenziale, la levità: laddove i nostri comici sono grevi e ripetitivi, qui è sufficiente un’espressione, senza il repertorio sempre uguale di Abatantuono, e la naturalezza dei personaggi per muoverci al sorriso.




FILMOGRAFIA


Il regista ha studiato Scienze Politiche a Milano dove ha frequentato anche l'Istituto di cinematografia

1982 
  • Mi Socio
    1988
  • Los Hermanos Cartagena
    1998
  • El dia que murio el silencio
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