NearDark - Database di recensioni

NearDark - Database di recensioni

Africa

Godard Tracker


Tutte le
Rubriche

Chi siamo


NearDark
database di recensioni
Parole chiave:

Per ricercare nel database di NearDark, scrivete nel campo qui sopra una stringa di un titolo, di un autore, un paese di provenienza (in italiano; Gran Bretagna = UK, Stati Uniti = USA), un anno di produzione e premete il pulsante di invio.
È possibile accedere direttamente agli articoli più recenti, alle recensioni ipertestuali e alle schede sugli autori, per il momento escluse dal database. Per gli utenti Macintosh, è possibile anche scaricare un plug-in per Sherlock.
Visitate anche la sezione dedicata all'Africa!


Dobermann
Anno: 1997
Regista: Jan Kounen;
Autore Recensione: l.a.
Provenienza: Francia;
Data inserimento nel database: 19-01-1998


Dobermann (id.), di Jan Kounen. Sceneggiatura, Joël Houssin. Fotografia, Michel Amathieu. Musiche, Schyzomaniac, Richard Shorr. Cast: Tchéky Karyo (Inspector Christini), Vincent Cassel (Dobermann), Monica Bellucci (Nat), Antoine Basler (Moustique), Dominique Betenfeld (L'Abb), Romain Duris (Manu), François Lavantal (Leo), Stephane Metzger (Chick Ortega), Roland Amstutz, Pascal Demolon, Marc Duret, Jean Lescot, Ivan Merat-Barboff, Patrick Rocca, Florence Thomassin. Produzione: La Chauve Souris / PolyGram Audiovisuel / France 3 Cinéma (FR 3) [fr] / Le Studio Canal+ / Noe Productions. Francia, 1997. Dur.: 1h e 40'.

La Gang del Dobermann è come una grande e folle famiglia. E per certi versi richiama alla mente la banda di Robin Hood: l'accampamento lontano dal nucleo urbano, nella foresta; le tende, il fuoco; il frate manesco; i briganti pittoreschi e simpaticoni; gli archi, le frecce, le sfide... Ma qui l'accampamento è fatto di rottami assemblati alla Nam-June Paik e di roulottes fatiscenti; la foresta è sostituita da una pianura desertificata; il fuoco non è un focolare rassicurante - il fuoco sta nelle pistole che hanno sostituito gli archi: più pratiche, più precise, letali; le pallottole viaggiano in soggettiva; frate Tuck è diventato un prete con la pistola clone dell'Anthony Perkins di China Blue; gli allegri briganti sono rimpiazzati da squilibrati pluriomicida, con un quoziente intellettivo inversamente proporzionale al tasso (altissimo) di propensione al crimine; le smorfie sono diventati tic incontrollabili tutt'altro che rassicuranti, evidenti richiami all'interiore costante crescita degli impulsi-violenti-al-secondo; professionisti della rapina a mano armata che si improvvisano nervosi giocatori di tennis con la pistola nell'elastico degli shorts... E Robin Hood? Dobermann ha ben pochi lati positivi, anzi: fuorché la lealtà verso il branco che da lui dipende, e l'amore per Nat, bellissima e pericolosissima gitana sordomuta traboccante sensualità che nel quadro rimpiazza l'amabile Marian, di tratti nobili Dobermann non ne presenta affatto - è un ladro, ma niente a che fare con l'arciere brigante/gentiluomo della foresta di Sherwood. Dobermann è un violento dal destino segnato da un battesimo coincidente con un battesimo-del-fuoco: il Baby-Dobermann con una pistola cromata tra le mani a pochi mesi mentre un dobermann (uno vero: nero, pelo raso ecc.) pianta le proprie zanne nel polpaccio del padrino malavitoso (padrino nella cerimonia e "padrino" nella vita). E da quell'istante, come sottolineano montaggio e movimenti di macchina, il suo mondo è capovolto: un mondo imperfetto perfetto. Perfettamente (leggi: pienamente, totalmente, in ogni sua cellula) imperfetto: la copia speculare ed opposta del mondo perfetto nell'accezione positiva comunemente intesa. I cattivi sono cattivissimi; di buoni neanche l'ombra; la legge è la violenza di uno sceriffo di Nottingham psicopatico e sadico, spogliato di qualsivoglia umanità; gli eroi sono dei brutali assassini senza pietà, privi di obiettivo oltre il bottino; la morte è un gioco. Il paragone tra Dobermann e Robin Hood non regge come non funzionerebbero altri accostamenti come quello con Arsenio Lupin: Dobermann l'eleganza non solo non sa dove stia di casa, ma addirittura ne ignora l'esistenza. Tuttavia un tratto lo accomuna con la versione nipponica cartoon di Arsenio Lupin, Lupin III, ed è la dirompente, esplosiva, adrenalinica, carica anarchica del personaggio (non certo la simpatia). Le rapine vengono organizzate e messe a segno per fare impazzire il nazistoide ispettore Tzenigata di turno: dieci, cento rapine contemporaneamente, nella stessa città, per mandare in tilt la polizia ed infine fare un unico colpo, presumibilmente indisturbati. E come il collega giapponese, anche il Dobermann vanta origini "a fumetti", nascendo infatti dalla penna di Joël Houssin. Hold-up-movie a tinte splatter-punk, tra white-trash di fine millennio ed atmosfere desolate "day-after", "Dobermann" spinge la macchina narrativa al massimo delle sue possibilità, svuotandola e riempiendola al contempo con l'effetto di rimanere sospeso (volontariamente/involontariamente?) tra una parodia iperrealistica che non sortisce effetti graffianti ed una rilettura noir di un sapore surreale apocalittico che sgocciola nel grottesco senza essere critico né sostanzialmente innovativo. La sceneggiatura è ridotta all'osso su un'impalcatura standard (la rapina riesce ma un anello della catena cede e la polizia assedia il covo) mentre assumono una rilevanza ossessiva i dettagli che via-via costituiscono il campionario degli stereotipi: l'attenta ironica catalogazione delle gigantesche pistole, grandi come deformate da una lente, lucenti come oggetti preziosi ed unici; la galleria di biffe, di ghigni, di sguardi obliqui; di gesti nervosi mutuati, con modi meccanici, dagli spaghetti-western; la schizofrenia dilagante delle detection/action post-moderne; il turpiloquio come unica modalità di comunicazione; il sesso visto come una fotocopia a colori di istantanee hard-core patinate; la violenza come paesaggio emotivo, come proiezione dell'interiorità; la caccia (all'uomo) come istinto; la violenza come catena senza fine, che contagia e coinvolge; il potere come minaccia da scalfire con lo sberleffo e con la truffa, sabotandola, mandandola in cortocircuito... Kounen centrifuga quindi gli elementi con una regia mai di servizio, illustrativa, ma sempre parallela e spregiudicata nell'intervenire sulla materia drammatica, a sottolineare, sovrapporsi, a frammentare in segmenti accelerati e rallentati, ad esplodere in moltiplicazioni di piani; uno sperimentalismo modaiolo che ha come coordinate il trash "colto", lo stile clip/pop della MTV più glam e la concezione narrativa sincopata propria dello spot pubblicitario; tuttavia il cocktail, che regista e sceneggiatore innaffiano ed inacidiscono con una forte carica anarcoide, non funziona pienamente. O, meglio, non è chiaro come dovrebbe funzionare. L'impatto è forte, mano a mano più violento, spiazzante: l'inizio di "Dobermann" è incasellabile come black-comedy con una forte componente parodistica; ma quando scopriamo maggiormente il mondo della storia notiamo che è assolutamente privo di coordinate, completamente in negativo, capovolto: non c'è una parte in luce a cui viene contrapposta la parte oscura come negatività, c'è soltanto un gigantesco cono d'ombra, soffocante; i personaggi che emergono contravvengono tutti alla prima regola di scrittura, non potendo coinvolgere il pubblico, non avendo alcuna capacità di comunicare con lo spettatore, contratti come sono in macchiette fastidiose, tendenti ad attrarre grazie al loro compiacimento nell'essere 'brutti, sporchi e cattivi', ma senza giungere mai all'autoironia, senza dunque innescare un meccanismo di empatia né di semplice simpatia; la verbosità isterica dominante che, attraverso il dialogo concitato, sempre sopra le righe, amplifica le azioni, le sovraccarica, rendendole sempre troppo esplicite quasi didascaliche; tutti questi elementi, inanellati sempre sul filo di un dejà-vu suggerito ma inasprito di uno humour nero in cui il nero è predominante, giostrati secondo ritmi incalzanti, sottolineati da una colonna sonora techno devastante, non si amalgamano pienamente: il troppo stroppia. E' un film affascinante, a suo modo elegante nella propria volgarità, ma freddo, distante, non coinvolgente: una carica enorme, ma inesplosa perché senza un detonatore. Procedendo ancora nella visione, poco a poco vengono a mancare quegli elementi grottescamente comici che costituivano un appiglio nella drammaticità sempre in crescendo delle sequenze: non resta che la rappresentazione della violenza, forte, efficace, a tratti fastidiosa; si resta incerti, spiazzati, investiti. Le situazioni si dilatano in tragici giochi di tortura, di parole, di urla, di pistole spianate. Nell'epilogo ritorna il tono fumettistico, ma solo per un attimo: il finale, apparentemente chiuso, in realtà resta aperto, essendo la soggettiva di un killer attraverso il mirino telescopico che tiene sotto tiro Dobermann ed i pochi compagni rimasti; il sequel di Dobermann è già in lavorazione. Ben confezionato, ben realizzato, studiato nel dettaglio per essere immediatamente 'cult', "Dobermann" conferma i tratti "caratteristici" di Kounen già dimostrati nei cortometraggi: l'irriverenza visionaria, il virtuosismo tecnico ammiccante, la provocazione quasi 'dada', l'immaginario kitsch, l'attenzione alla costruzione del quadro, la patina che sembra inghiottire, sbiadendoli, i colori, per poi essere squarciata da colate scintillanti e da vampate di puro techno-chic-clip. Ed al contempo "Dobermann" evidenzia anche quanto quegli stessi tratti trovino difficoltà a reggere un metraggio più lungo tendendo allo stucchevole; un limite che forse traspariva già dal mediometraggio Vibroboy (geniale pastiche splatter-adventure tra Spielberg, Almodovar, Tsukamoto e Peter Jackson). Divertissement nato per sbancare i botteghini francesi, ha assolto pienamente al suo compito: cattivo, strafottente ed odioso quanto basta per traspirare immediatamente odore di culto, "Dobermann" è come un videogame in cui tutto è concesso e tutto è spinto al doppio della velocità, in cui tutto è gonfiato ipertroficamente... e come i videogame più forti, più violenti, attira, vende, diventa cult. Contribuisce a rendere ancora più glam l'operazione la trovata di utilizzare per la coppia-protagonista la coppia-nella-vita dei due belli Monica Bellucci e Vincent Cassel. Diverte, a tratti urta, alla fine la tensione è quella di un cavo d'acciaio sospeso sulla totale incertezza: un bel pugno nello stomaco, con sorrisi interdetti e qualche sghignazzata. Come essere travolti da un tir con un carico di psicofarmaci nel container. To be continued...

Nota: per una documentazione su Jan Kounen (biografia, filmografia, interviste, sceneggiature, acquisto vhs dei cortometraggi, storyboard, contatti e-mail con il regista, immagini, trailers, Kounencam ecc.) merita una visita il sito ufficiale di Kounen curato dal regista stesso:
Altrettanto ricco le pagine dedicate a Kounen da Ecran Noir: