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A Matter of Size
Anno: 2009
Regista: Sharon Maymon; Erez Tadmor;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Israele; Germania; Francia;
Data inserimento nel database: 08-01-2015


“I am not upset. I am hungry.” Durante la mia visita a Tel Aviv, passeggiare sul lungomare, accendeva il mio rancore, invidia e tanta soggezione. A qualunque ora del giorno, anche in piena notte, centinaia di persone – donne uomini giovani vecchi – corrono, pedalano, giocano a beach volley, fanno esercizi nelle tante palestre all’aperto piene di attrezzi. Tutti hanno dei fisici esaltanti, muscolosi, atletici, aitanti, ogni muscolo al suo posto. Io li guardavo imbarazzato, cercando di apparire invisibile. Sembra che tutti gli abitati di Tel Aviv siano la sublimazione del fisico e del corpo, dell’esercizio e dello sport. Se a Tel Aviv, io ci posso andare in vacanza qualche giorno l’anno e poi me ne torno nella più naturale Italia, certo non deve essere facile per un ciccione ebreo vivere in un ambiente palesemente ostile: “There are not fat people in Israel.” Il sentimento di essere grosso, ciccione, trippone, adiposo, obeso in Israele c’è raccontato divertendo, e utilizzando un tono sociale, nel film, A Matter of Size dei registi Sharon Maymon e Erez Tadmor, presentato al 12 th World Film Festival of Bangkok 2014 nella retrospettiva sul cinema israeliano. All’inizio un bambino sbircia un altro ragazzino alla visita medica della scuola. Non è una curiosità normale. Nello sguardo leggiamo l’incomprensione di essere diverso, perché il bambino Herzl è già obeso. Stacco temporale per ritrovare Herzl vivere ancora con madre, il quale ancora con disagio fatica ad accettare la sua condizione fisica. Ha problemi nel lavoro. Licenziato si trova a lavorare in un ristorante giapponese gestito da Mr. Kitano ex campione di sumo. È conoscendo la cultura giapponese, la bellezza e l’esaltazione popolare dei combattimenti di sumo che Herzl prende coscienza, dell’esistenza nel mondo, di una bellezza del corpo sovradimensionato. È una concezione di assoluto totalmente differente, s’impedisce di dimagrire, e al contrario, c’è un incitamento a diventare sempre più grosso. Facilmente leggiamo un pensiero di libertà. Essere libero significa perfino distinguersi da un modello main stream di opinione. Si può essere grassi senza sentirsi in imbarazzo, consapevolezza acquisita nel tempo e dopo tanta umiliazione. Inequivocabilmente un pensiero dominante cerca di livellarci, però non abbiamo l’obbligo di essere dei sudditi e di essere tutti uguali. Dobbiamo ribellarci – è anche un film di disubbidienza - per essere ciò che vogliamo senza coercizioni. Herzl e i suoi amici obesi utilizzano il sumo, cercando di trasformarsi in campione di sumo in Israele. Una disciplina sconosciuta in Medioriente. La storia poi prosegue con gli allenamenti, le difficoltà di approccio con il maestro giapponese, con la ragazza esclusa perché le donne non possono praticarlo, con le diffidenze degli israeliani e delle famiglie. Certo alcuni approcci sono un po’ alla Maestro Miyagi, invece di “metti la cera, togli la cera”, il loro allenatore giapponese gli impone di spingere la macchina per chilometri. I registi si muovono per simmetrie. Si passa dall’associazione per perdere peso, ognuno sale su una bilancia e si applaude per qualche chilo in meno, alla mentalità opposta della pesa degli atleti sumo, quando al contrario si applaude felicemente per aver preso dei chili. Ovvero dalla divertente situazione creata dall’amico gay sovrappeso, il quale si rende conto del mondo dei gay bears, dove gli uomini in carne sono ricercati e apprezzati nei bar per la loro virilità e mascolinità rappresentata dalla ciccia sovrabbondante. Non c’è niente di male se uno vuole essere ciccione: “Besides you are too thin.” Perciò che la gente rida pure quando li vedono correre fieri nel loro mawashi, il perizoma poco erotico dei lottatori di sumo.