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Father and Son - Soshitechichi ni naru
Anno: 2013
Regista: Hirokazu Koreeda;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Giappone;
Data inserimento nel database: 30-04-2014


"Neanche il bagno fate insieme." Lo scambio dei figli è un classico del cinema. Ricordo Il figlio dell’altra, con la tensione dell’errore accentuata dalle differenze politiche e razziali fra ebrei e palestinesi. Molto diverso è Father and Son (titolo originale Soshitechichi ni naru) del regista Hirokazu Koreeda. Anch’egli affronta il tema delle disuguaglianze fra famiglie, con una visione sociale ed economica ma presentando un taglio culturale e psicologico antitetico. Ryota è sposato con Midori. Ancora giovane ha già una posizione e una carriera brillante. Il regista introduce la coppia in un grande appartamento su un grattacielo di Tokyo: una vetrata con una vista stupenda, una casa arredata modernamente con mobili di classe e di gusto. Per il target giapponese, case piccole e arredate approssimativamente, è indice di superiorità economica notevole. Ma Ryota nonostante il successo ha un cruccio, profondo, ben espresso dal bravo attore Masaharu Fukuyama. L’amarezza è il figlio Keita. Figlio unico, Keita ha sei anni, è un bambino ben educato, gentile ma, all’opposto del genitore, non esibisce il desiderio di prevalere, di emergere. Il padre lo iscrive a una scuola privata, sottoponendolo perfino a un esame di ammissione. Lo obbliga a suonare il piano ma dal figlio arrivano soltanto delle esecuzioni mediocri. La scoperta dello scambio dei figli è per Ryota una giustificazione dello scarso rapporto con il figlio. La benestante coppia è costretta a conoscere e frequentare la famiglia del loro figlio naturale. Yukari e Yudai sono il contrario. Vivono in una catapecchia nella quale il padre ha anche un magazzino di prodotti elettrici con un business visibilmente insoddisfacente. Viaggiano in uno sgangherato pulmino e hanno evidenti mancanze di denaro. Hanno tre figli, con i quali hanno una sensibile relazione affettiva. Il padre, persona scarsa nel lavoro, ha invece una grande passione e tenerezza nei confronti dei figli, non gli richiede di raggiungere risultati elevati ma solo di essere dei bambini felici e allegri. La conoscenza di Ryota con la nuova famiglia è disastrosa. Egli si sente alienato perché totalmente diverso. L’ospedale in cui è avvenuto lo scambio gli suggerisce di invertire i bambini seguendo il concetto di figlio naturale. Ryota accetterà, nonostante i dissapori con la moglie, nella speranza che il nuovo bambino gli sia più assomigliante. La pellicola di Hirokazu Koreeda è gentile, dolce, profondamente giapponese, come nel ringraziamento mattutino agli antenati o la passeggiata nel parco pieno e raggiante di alberi di ciliegio. Il regista affronta un tema fondamentale, apre un dibattito fra figlio di sangue, naturale e quello allevato anche se non procreato. La disputa ha dei divergenti sostenitori. La madre della moglie: "Chi conta è chi ti cresce, no chi ti mette al mondo." Risponde il padre di Ryota: "ascolta è il sangue" e gli suggerisce di cambiarli perché ancora è in tempo. Il suo capo lavorativo gli propone una diversa soluzione: tenerli entrambi. La proposta provoca una reazione indispettita dell’altra coppia. Ma il film ha una chiave di lettura superiore, determinata nel rapporto fra Ryota e Keita e in parallelo (anche se appena accennato) fra Ryota e suo padre. La regia è elegante, una precisa concezione delle scene, e un gioco di colori e chiaroscuri intensi. L’inizio è minimalista. Genitori e Keita sono nell’elitaria scuola per il test di ammissione. Tutto è luce bianca pura, gli esseri umani sono tutti in scuro e si manifesta il primo contrasto con l’ambientazione, e con le bugie del figlio. Sono ripresi di profilo, nello sfondo nulla, unicamente luce chiara. Il passaggio successivo è nella raffinatezza della casa, pure qui prevalgono colori accecanti e il nero. L’inquadratura preferita è il campo medio e il campo e controcampo con un effetto flou per l’ascoltatore. Il seguito è un mettere in risalto le differenze sociali e umane fra le due famiglie. Sono psicologiche: uno affettuoso, l’altro freddo; uno spaccone, l’altro ambizioso; uno solitario, l’altro gioviale; uno mangia sempre, l’altro è schizzinoso. Il regista le accompagna con simbolismi come le due cannucce masticate in modo dissimile dai bambini.