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The Granmaster
Anno: 2013
Regista: Wong Kar Wai;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Hong Kong; Cina;
Data inserimento nel database: 07-10-2013


“La vecchia scimmia appende il suo distintivo.” La storia di Ip Man era stata portata sullo schermo dal regista Wilson Yip in due pellicole, interpretate da Donnie Yen. Ip Man è uno dei più famosi maestri dell’arte dello Wing Chun, una scuola di Ku Fu. La considerazione mondiale arriva, quando il suo allievo Bruce Lee, diventerà il glorioso attore Bruce Lee. Questi film appartengono all’esaltazione del mito. Storie ben dirette ma semplici, con un linguaggio internazionale. Di diverso stile è la trasposizione cinematografia della stessa biografia di Kar Wai Wong in The Grandmaster. Siamo a Foshan nella Cina meridionale, nel 1936. L’inizio è una stupenda battaglia a colpi di arte marziale, durante la quale Ip Man affronta da solo, elegantemente, un numeroso gruppo di rivali. Piove fortemente, ogni goccia d’acqua cadendo forma un disegno artistico o sulla strada o sul raffinato cappello bianco indossato da Ip Man. L’inquadratura della camera, i primi piano ardenti, la semplicità ma raffinatezza dei gesti, dimostra quanto dichiarato dal regista in un’intervista: “Nel film, ogni coreografia di mosse o scene di combattimento, è basati su abilità reali. Non c’è nulla contro la gravità o contro i principi di quella scuola.” www.primissima.it/cinema_news/scheda/the_grandmaster_-_intervista_al_regista_wong_kar-wai/ Il primo combattimento lo conferma. Non c’è bisogno di esagerazioni oltre il limite umano, l’unica necessità è lo stile. Kar Wai Wong è maestro dell’approfondimento attraverso immagini silenziose, ricche di gesti e di sguardi. Senza impietose forzature fisiche il regista si concentra sulla rappresentazione: abbiamo tanto nero, immagini rallentate, dettagli minuscoli, primissimi piano, il particolare dei piedi, la loro posizione, una luce notturna spezzata da flussi di luce di candela intensi. E poi tanta, tanta pioggia: densa, fisica, intensa. L’idea della pioggia è vitale, perché rende spettacolare lo scontro, e il maestro Ip Man nel suo Borsalino si trasforma in eroe. Dopo una partenza abbondante, la storia acquisisce, come nei precedenti film di Wong Kar Wai, l’aspetto dell’amore difficile, impossibile, combattuto. Gli amanti, hanno un limite, una difficoltà, soprattutto è una complicazione interiore a frenare la passione. A Foshan, se non dovevano combattere, gli uomini dimostravano la virilità all’interno dei postriboli: “Gli uomini socializzavano nei bordelli”. Ma all’interno la presunta superiorità del maschio spariva, e l’uomo subiva la preponderanza della donna: “Si entrava principi e si usciva poveri”. Il maestro Gong proveniva dal nord della Cina, la parte sottomessa all’invasione del Giappone: “La bandiera giapponese non sventolerà mai su di me”. La signorina Gong è la figlia del maestro, una capace e abile combattente. Nella scuola del maestro Gong si formano alcune forti personalità, e gli allievi si divideranno nelle difficoltà delle vicende successive. Il seguito è storia. Nel 1938 il Giappone invade la Cina, iniziando una dura repressione. La vita è dura per tutti, i ricchi si tramutano in poveri: “Io non sono mai stato povero”. Nel 1950 ritroviamo Ip Man a Hong Kong. L’autore ci mostra un’esaltazione delle arti marziali. Ma non è solo uno sport, o una forma di difesa o di attacco. È una filosofia di vita, un atteggiamento per confrontarsi con gli altri e con se stesso. Per questo i combattimenti non provocano morti (come la spada di scimmia, la quale fa a brandelli i cappotti, ma non uccide), e non hanno esagerazioni fisiche. Non è il fisico a lottare ma la mente e il cuore insieme: “Alcuni prosperano nella luce altri nella oscurità”. Il primo linguaggio utilizzato è la fotografia, la luce, dominante, efficace spesso superflua o abbondante. Nel buio totale, esiste un’esclusiva fonte di luminosità diretta a colpire un ritaglio del viso. Con il suo cappello bianco Ip Man è centrato da un’aureola umana, sempre calmo e consapevole. La città oscura, dannata, è ripresa con un fumo intenso, e riflette il bagliore, in uno schermo in cui domina il nero. In questo habitat di colore, il regista ci presenta un volto per volta, un primo piano, una luce. Il contrasto è di sguardi e di silenzi. Con un’atmosfera sottile, rarefatta, abbiamo la celebrazione del Wing chun. Sono tante le frasi pronunciate in sua difesa: “Tutti i principi delle arti marziali si applicano anche al carattere.” “Il kung fu non è esibizione.” Il bellissimo film ha alcune scene memorabili. Un’isolata lacrima scorre sulla guancia bianca della signorina Gong. Sul volto diafano, le incendiarie labbra rosso fuoco, formano un dipinto, un segno di un carattere umano di una donna consapevole del proprio destino: “Peccato che non sia stato un maschio.” Inoltre l’affascinante funerale cinese. Si abbandona momentaneamente il nero per addobbare l’immagine di bianco chiaro, pulito, e con la neve si raggiunge un’esaltazione totale, alla quale si aggiunge il mare, i colori dei vestiti. Un’inquadratura ampia, totale. Un trionfo per la visione.