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Confessions – Kokuhaku
Anno: 2010
Regista: Tetsuya Nakashima;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Giappone;
Data inserimento nel database: 24-06-2013


"Nessuno mi aveva detto che era sbagliato uccidere." La fenomenologia della mente giapponese è racconta con solita acutezza e libertà mentale dal filosofo, studioso, professore universitario Leonardo Vittorio Arena. Nel libro “Lo spirito del Giappone. La filosofia del Sol Levante dalle origini ai giorni nostri” (Rizzoli, Gennaio 2008) descrive l’atteggiamento dell’individuo nei confronti della società: “Ognuno deve stare al proprio posto: l’individuo scompare di fronte alle relazioni sociali. È la pedina di un possente ingranaggio, che minaccia di schiacciarlo nel caso di trasgressione delle regole. L’io si definisce in relazione all’altro, di fronte al quale tende almeno a ridimensionarsi. Contesti analoghi nelle società occidentali non presentano che una vaga somiglianza con questo fenomeno. […] Si considera il gruppo, più che l’individuo. La mente giapponese tende a vivere in un contesto sociale limitato.” (Pag. 352) … “Non tutti sono di pari rilevanza, certo, ma l’individuo acquista consistenza soltanto se riesce a rapportarsi alle loro aspettative.” (Pag. 353) Una delle ripercussioni sociali più profonde dell’etica giapponese è un incitamento compulsivo ossessivo della famiglia e della società, per i giovani studenti a ottenere dei risultati eccezionalmente validi a scuola. Questa tensione provoca uno stress e una condizione di profondo disagio ai liceali e ai loro genitori. Avere un amico giapponese e parlargli, scrivergli durante il periodo dei test di ammissione all’università è un compito arduo, perché sono nevrotici e tesi. Il giorno degli esami le famiglie – anch’esse logorate – attendono i figli fuori la scuola. Fallire il passaggio a un’università di prestigio rappresenta una delusione umana, una vergogna e causa di un elevato numero di suicidi. Confessions del regista Tetsuya Nakashima è una narrazione del malessere sociale, umano e spirituale di un liceo nipponico. Il film mostra l’alienante rapporto fra la professoressa Yuko Moriguchi e i suoi studenti, ambientato in una scuola formato manga. Come nel famoso fumetto GTO, la scuola è un ricettacolo di violenza, crudeltà, pazzia. Tanti fumetti scolastici hanno uno sfondo apocalittico, catastrofico, come in uno scenario post conflitto nucleare. Lo stesso accade a Confessions, il quale ha una temporalità attuale ma come sfondo un futuro distopico accentuato dal regista con il suo linguaggio cinematografico. È un pregio, e, contemporaneamente, un limite perché lo sottopone a una costruzione irreale, ma nello stesso tempo allontana la narrazione. L’inizio è spettrale e drammatico. In una classe una insegnate parla. Racconta un avvenimento personale. Ma in aula regna la confusione, gli studenti adolescenti anziché ascoltare sono occupati a chiacchierare, urlare, giocare. Nessuno è interessato, nessuno l’ascolta. Il regista predilige un’accentuazione visiva: un ralenti, una distorsione dei suoni, una doppia voce, una palla lanciata, un’inquadratura dei banchi dall’alto. Questa è la scuola giapponese. È un inferno; una dannazione per la Yuko Moriguchi e per la società nipponica. Il linguaggio veloce produce un’irreale situazione. Accresce emotivamente quando la professoressa predica responsabilità, e le immagini - rapide e schizofreniche - scorrono dalle parole al disordine della classe, per riapparire di seguito dei corridoi esasperatamente vuoti. Come impazzito, il regista fa correre la camera nell’aula, segue l’insegnante e le assurde domande degli allievi. Il terrore aumenta, delle figure scure e nere appaiono sullo sfondo. Gli studenti scrivono sms a ripetizione, il linguaggio è quello da cellulare: "Io lo voglio uccidere". Tutto si perde in un’irrealtà allucinata. Finita la premessa, l’insegnante racconta il segreto. Il segreto riguarda la figlia e due studenti problematici della scuola. La conoscenza del fatto deflagra all’interno della classe. Provoca una reazione. L’incubo di una vendetta atroce offusca due studenti all’interno della classe: la minaccia atroce della HIV quale contrappeso per le loro orribili colpe. Si cambia livello temporale. La classe è sempre la stessa, Yuko Moriguchi non c’è più, sta compiendo la propria vendetta al di fuori del ruolo istituzionale d’insegnante. Ora può aggredire i colpevoli con il loro disumano passato. Ai personaggi si aggiunge una studentessa, una persona corretta, la quale con una voce fuori campo ci consegna una visione disuguale degli eventi in corso. Il racconto perde soggettività. Pure lei, insieme con altre innocenti persone, sarà invischiata nei meandri della rappresaglia. Frattanto con flash back mutevoli ed evolutivi appare la crudeltà dei giovani. Compiono tutto: fingono, mentono, provocano, uccidono. I peggiori delitti si accumulano su un adolescente. Il film accentua il sentimento con il linguaggio rapido e iperattivo, con una camera vivace, e alla quale si aggiunge un montaggio fantasioso crudele. Lo stile è efficacemente legato alla dinamica psicologica della prof e dei due alunni. Tutti sono diversi ma entrambi si espongono ha una vendicatività esemplare. Gli studenti si accaniscono tentando di fomentare il caos all’interno della scuola: "C'è nessuno che vuoi uccidere?" Nell’alacre vivacità stilistica si percepisce un senso sociale appannato. I legami fra il padre e il figlio, fra l’insegnante e lo studente s’infrangono di fronte a stimoli esterni. Accusano perfino un insegnante innocente per difendere l’impossibile. I professori percepiscono la loro funzione sociale in picchiata, si rendono conto che non riescono più a controllare gli avvenimenti: "Gli insegnanti hanno la responsabilità di riportare gli studenti sulla retta vita", ma non è più così. I ragazzi sono fuggiti, stanno costruendo un loro mondo, un loro modello esistenziale: "Nessuno mi aveva detto che era sbagliato uccidere." È un’atroce denuncia. Come si può farneticare su un argomento come la vita umana? Il motivo è un’esplosione dei ruoli sociali. Allora si riesce a trovare un colpevole in questo disordine? Tutti hanno qualcosa da confessare. Tutti hanno qualche segreto da svelare. Forse i ragazzi si sentono incapaci di apprendere dai vecchi livelli educativi. La famiglia è in crisi. Uno dei ragazzi è gestito – senza successo – dalla sola madre. Il padre è assente. L’altro studente è abbandonato dalla madre. La solitudine è la vincitrice; persino i vincoli di amicizia e di amore adolescenziale sono basati su strutture crudeli. Il finale è un divertimento per il regista. Le immagini si rincorrono vorticosamente. I flash back aumentano e s’intersecano su un’esistenza raccontata. La scuola, nella fattispecie la sala riunione, si tramuta in un palcoscenico teatrale, perché tutto accade, tutto corre, tutto si stravolge ma all’interno di un minuscolo spazio fisico. Questo piccolo teatro è trasformato dall’autore con dei volteggi praticati dalla camera. Professoressa e Yukito si affrontano senza paure e senza limiti. Il confronto è veloce dinamico emotivo, ma è un’illusione del regista, lo spazio è piccolo e su una limitata estensione appare la realtà distopica e futuristica dell’autore. Ma i due personaggi non si sono mossi, gli altri studenti guardano, eppure è accaduto l’impossibile ma nessuno è intervenuto. La realtà è sparita. Sono assenti preside, polizia, come manca la giustizia; c’è solo la rappresaglia agghiacciante di una madre. Possiamo rammaricarci che la colpa degli studenti non è giustamente retributiva? In una società dove l’oggettività del reato è ancora oggi – per ataviche situazioni – una rappresentazione equa della punizione, la vendetta è la giusta condanna. Non quella divina, perché per un giapponese non esiste, ma quella personale: "Io non ti perdonerò mai". Perciò quando lo studente spingerà il pulsante per la deflagrazione della bomba subirà il peggiore del castigo. Mantenendo una cifra stilistica e linguistica costante, il regista ci consegna un documento fra il fumetto e l’irrealtà, parlandoci tuttavia di un sociale attuale. Il linguaggio differenzia il racconto in due linee parallele di pensiero, accomunante dall’atroce teoria dell’autore.