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Educazione siberiana
Anno: 2013
Regista: Gabriele Salvatores;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 11-03-2013


“Chi vuole troppo è un pazzo.” Nicolai Lilin è russo, ha scritto il romanzo Educazione siberiana in italiano. Il regista Gabriele Salvatores è italiano e ha girato il film da cui è tratto in inglese. Siamo di fronte a una storia di formazione, un ragazzino educato all’interno del clan mafioso dei siberiani. La Transnitria è un piccolo lembo di terra a oriente del fiume Nistro da cui prende il nome. Dopo la dissoluzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, divenne parte dell’indipendente Moldava. Nel 1990 la Transnitria si è autoproclamata indipendente, ma poverini, non sono riconosciuti da nessuno stato al mondo. In questo territorio durante lo stalinismo furono esiliati molti criminali organizzati a clan della Russia, fra loro quello siberiano. La storia ha una struttura temporale tripartitica. I personaggi principali sono due ragazzi: l’artista Kolyma e l’ex carcerato Gagarin. La prima fase temporale è lontana nel tempo, durante il potere di Stalin. I due sono dei bambini vivaci intelligenti furbi. Il nonno di Kolyma è il boss, un’autorità quasi religiosa per il gruppo sociale. Ha costruito le sue regole, le sue leggi e tutti sono tenuti a rispettarle: “bisogna avere rispetto di tutti, tranne poliziotti, banchieri e usurai.” Nella seconda sono due adolescenti, il muro è caduto da poco, la città sta assumendo le forme più occidentali compresi i vizi. Gagarin è uscito dal carcere, è solo e abbandonato ma ritorna nella sua città. Il rapporto con l’amico Kolyma è forte e intenso. Il terzo momento è ambientato all’epoca attuale. I due ragazzi si sono separati ma la loro amicizia sarà messa a dura prova. I tre momenti s’intrecciano, si alternano, si attorciglianorealizzando una struttura obbligata a un lavoro di montaggio vigoroso e veloce. La trama però non si perde, malgrado alcune pesantezze, si continua a progredire nelle altalenanti vicissitudini. Salvatores si dedica alla ricerca dell’immagine perfetta, a uno studio di luci particolari, prevalentemente molto intensada una singola fonte. Soprattutto crea un paesaggio al limite del surreale. Abbandona il realismo necessario alla struttura della storia per idearescenari inesistenti. Il loro quartiere dovrebbe essere degradato povero, invece, si trasforma in una favola. Tutto è perfetto, limpido, candido. La purezza contrasta con la durezza e la spietatezza della vita. Un membro del clan rompe il divieto di spacciare droga: “Non c’è posto della droga nella nostra comunità”. Il nonno e gli altri lo catturano e lo costringono a ingoiare tutta l’eroina. I due bambini osservano stupiti, intorno a loro tutto è chiaro; prima la scena della punizione è intera. Dopola camera si sposta e la osservano dal pertugio della porta. All'istante si chiude, tutto è bianco, ma si odono ancora le urla dello spacciatore. Inoltre la città ha dei colori dominanti, spiccano accentuati, come il giallo delle case, il verde del balcone. E intorno ancora una neve immacolata e lucente. Simbolo è la colorata giostra posta in uno spiazzo immenso, circondata dalla neve e intorno alle case finte ingannevoli. La giostra ha dei colori primari, esasperati. I ragazzi salgono come dei bambini e cercano di volare in alto a raggiungere il nastro: “la casa di ogni creatura vivente è il cielo” gli aveva proclamato il nonno. La pioggia provoca un’alluvione, ma l’acqua è limpida e fresca; trasporta tutto, compreso una stupenda icona, la quale scende lentamente mentre qualcuno sta morendo. Il fiume è il momento della separazione; un pianoforte è uno strumento di morte e di musica contemporaneamente. Dopo Trovatore in La migliore offerta, anche Salvatores gira un film di genere. Forse un ritorno al cinema, senza storture politiche e sociali ha sicuramente giovato a entrambi, ottenendo perfino buoni incassi. Salvatores è molto attento, pure troppo. Il particolare non gli sfugge. Forse esagera a rendere smisuratamente ‘’russo’’ la pellicola, pur essendo un’opera italiana in tutti i sensi: la musica, le case zepped’icone, le divise russe abbondano. Il film parla di tradizione e dell’obbligo di rispettare le regole. Le loroleggi sono indelebili superano addirittural’amicizia fraterna. E la vendetta deve essere rispettata contro qualunque persona. Compagni fin da bambini si ritrovano, si abbracciano, girano su se stessi e la camera vola in cielo a riprenderli in un balletto di struggente sentimento. Inattaccabile è la parte spirituale del film. Due sono le chiavi: i simboli religiosi e i tatuaggi. “La picca è come la croce” il nonno regala al nipote la lama utilizzato per tagliarli il cordone ombelicale. La gioia dei bambini è immensa: altro che regalargli un Ipad. La sant’icona è una Madonna incrociata con due armi. «Io non venero la materia ma il creatore della materia e di operare la mia salvezza attraverso la materia» disse San Giovanni Damasceno. Perciò l’icona con le due pistole è venerataadorata, segna l’unione fra il sacro e la criminalità, altrettanto divina per i suoi spietati riti. Chi ha creato la materia, ha concepito il bene e il male, e li ha uniti, e forse la salvezza non ha una sola via. I tatuaggi sono l’altra chiave stilistica. La parola tatuaggio deriva dal polinesiano “tatau”, una voce onomatopeica perché riporta il suono nelle bateche che segnano la pelle. Il tatuaggio nasce come rito religioso. Dall’oriente si sposta in occidente, divenne arte riconosciuta con il famoso tatuatore americano “Sailor Jerry” Collins, capace di assimilare l’arte giapponese. Apprende l’arte il nipote Kolyma, esteta e abile disegnatore. Il suo maestro ‘Ink’ legge sulla pelle il libro della vita di ogni persona, perfino i segreti nascosti di una spia. I bellissimi corpi dei siberiani, con i loro tatuaggi, nel bagno turco espongono le loro fatiche e i loro sogni, sono un libro aperto ma anche fedeli praticanti di una religione. Con questi due ultimi elementi il regista ci concede una bella storia finta ma ben raccontata. Ha dei difettucci, ma chi non è ha, come una limatina alla parte letteraria, certe frasi possono piacere in un romanzo, in un film sono urticanti. Frase tratta da Enrico Morini, Gli ortodossi, Il Mulino, Bologna, 2002 Jean Blanchaert, Il tatuaggio dalle origini a oggi Simboli a fior di pelle, Art Dossier, Giunti, Firenze