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Monsieur Lazhar
Anno: 2011
Regista: Philippe Falardeau ;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Canada;
Data inserimento nel database: 19-10-2012


“E meglio il mal di denti e la diarrea.” Siamo in una scuola elementare a Montreal nel Quebec canadese. La prima inquadratura è dall’alto, verso il cortile innevato dell’istituto, dove tanti bambini parlano e giocano. Per effetto delle mura la ripresa dello spazio forma un triangolo acuto. Questa posizione sarà la firma del regista Philippe Falardeau nel film Monsieur Lazhar. Un alunno si deve allontanare dal cortile per portare il latte per i suoi compagni nell’aula. Dovrebbe essere vuota. Attraverso uno spiraglio, ad angolo, della porta, il ragazzino Simon intravede la sua maestra impiccata. Stacco nero. Funerale e tentativo della scuola con uno psicologo infantile a contenere e controllare il trauma dei suoi allievi. La classe rimane vacante. Si presenta per il posto un signore algerino: Bachir Lazhar. Durante il colloquio con la preside dichiara di avere il permesso permanente in Canada e di aver insegnato in Algeria. La classe di Monsieur Lazhar è composta di bambini tra i dieci e gli undici anni. Rappresentano una variegata umanità infantile, maschi e femmine sono rappresentati in tanti modi. C’è quello con un perenne mal di testa, quello aggressivo, la saputella e la curiosa, quello di origine araba e il cileno. Fra i bambini e il nuovo maestro si instaura un rapporto positivo, dopo la prima diffidenza a causa di Balzac. Fra loro, però, c’è sempre il fantasma della maestra suicida. Lazhar diffida dell’attività della psicologa e diffida anche delle regole, normative e divieti cui devono soggiacere il corpo insegnante. Lazhar ha un suo metodo, deriva da una differente cultura, dove dare un lieve scappellotto a un bambino non è un umiliante crimine contro l’umanità, ma un efficace strumento educativo. Fra le assurde regole c’è l’obbligo di non toccare in nessun modo i giovani, compreso abbracciarli. È il tema centrale, il quale penetra nella nostra testa, cinematograficamente con un linguaggio preciso e delicato. Quale è il significato del contatto corporeo? Può l’assurda dittatura del politicamente corretto sopprimere perfino l’umanità e l’educazione dei bambini? La preside lo definisce “tolleranza zero”, in realtà il cercare di essere perfetti rende tutti imperfetti, fino alla autodistruzione. In nessun caso ci deve essere una vicinanza fisica. Per elaborare la bestialità di questo pensiero, il soggetto del film utilizza una persona di cultura diversa, di tradizioni opposte. Inoltre Lazhar ha subito una violenza inaudita, unendosi al turbamento degli allievi. Nella scena in cui Lazhar guarda a casa la foto dei suoi figli, c’è uno stacco repentino, e si manifesta l’immagine di un primo piano del viso di un bambino, due secondi, e appare un altro alunno e così via. Il collegamento è evidente, maestro e scolari hanno qualcosa da piangere, hanno una solitudine e una sofferenza da definire e il loro legame è molto più profondo. Le scene sono piene, collettive. Inoltre, quando il professore parla in aula è inquadrato con una soggettiva da parte degli alunni dal basso. È sempre una ripresa angolare, come la nuova disposizione dei banchi. La classe, il luogo fisico, lo spazio rinchiuso dalle mura e dalla finestra, il territorio guidato dal maestro sulla sua tribù, è il centro della trasformazione, della elaborazione del lutto e della crescita, della definizione delle personalità e della maturità. Assomiglia molto a un altro famoso film, quello del regista Laurent Cantet: La classe - Entre les murs. Pure in questa pellicola, tutte le sfaccettature morali e umane, degli studenti adolescenti e dell’insegnante, si svolgevano entro le sacre mura dell’aula. Infatti, Lazhar è incazzato con la maestra suicida perché ha offeso la venerabilità del luogo: “Le sembra normale impiccarsi in classe?”. Ha violato l’intimità e la sicurezza della classe, dove i bambini dovrebbero essere protetti e amati. E nella stessa aula vuota, con un’altra bella scena Lazhar, sfoggia una danza araba: “La classe è un luogo di garbo di vita.” La differenza è palese, Lazhar balla e lancia un inno alla vita, Martine si è uccisa nello stesso posto, con il perenne dubbio di avere scelto il luogo per disintegrare l’incolumità degli alunni e vendicarsi con uno di loro: “Non un luogo di dolore e sofferenza”. Il peggio appare, quando si scopre della tensione fra maestra e Simon. Il motivo del contendere fra i due era un abbraccio, un gesto di affetto – vietatissimo – che la Martine aveva avuto nei confronti di un Simon abbacchiato. La storia ritorna al tema del contatto materiale. In un mondo dove ci sono persone alla ricerca della corporeità anche come gioco - posizionandosi in una strada affollata con cartelli HUG FREE per invogliare, per ridare valore al contatto fisico - nella elementare del Quebec è rigorosamente proibito. La ribellione è imminente, il film si conclude con un altro abbraccio illegale, pieno di speranza, quello di addio fra Lazhar, costretto a lasciare la scuola, e la piccola Alice. Lui sa bene: non potrebbe, non è consono, non è politicamente corretto, è contro il regolamento, è vietato, è sanzionato, è sconveniente, ma lui se ne frega. Corsa di Alice nel corridoio, entra in una luminosa classe e stringe forte, ricambiata, il maestro. I bambini devono essere amati e non si può amare un undicenne con una carezza virtuale, o inviandogli uno smile con l’iphone. Un ragazzino necessita un gesto affettuoso e perfino un buffetto se bisogna punirlo. L’assetticità con cui dovrebbero crescere è solo una concezione paradossale della vita. Per un arabo, educato in un caldo e corporeo paese africano, non può esistere un divieto del genere. Il film dopo una partenza veloce, continua come se non dovesse succedere più nulla. Invece tanto accade nell’animo degli studenti e in quello di Lazhar. Il regista utilizza un montaggio ottimo per provocarci delle reazioni, inoltre riempie lo schermo o con scene corali o con dei campi medi per esaltare la bellezza e la purezza dei bambini. Una solidificazione della storia sarebbe stata necessaria, ma ciò non toglie valore al film, anche grazie alla sua sottile ironia soprattutto quando si parla dei ragazzini: vedere la scena del dizionario mette allegria e voglia di tornare a sedersi su un banco. Nella neve illuminata dal sole, i bambini già tendono a dimenticare i loro contrasti, il sorriso appare, e sempre nel chiarore dell’interno della classe il proibito abbraccio consente l’elaborazione del lutto.