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In Time
Anno: 2011
Regista: Andrew Niccol;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 20-07-2012


“Il tempo è la valuta in corso.” In questo marasma economico pure la satanica Moody’s potrebbero tagliare il rating al tempo come sta facendo ad alcuni paesi dell’euro. Il bel film In time di Andrew Niccol ci riporta in un angosciante futuro distopico; ma in realtà di distopico c’è solo il presente. Il domani descritto da Niccol non è avanguardistico, non ci sono computer utopistici, robot umani, non ci sono effetti speciali futuristici; l’uomo non ha modificato i suoi desideri e i suoi bisogni, ha solo cambiato moneta. Il genere umano - dall’epoca degli alchimisti, dai cacciatori del Santo Graal - vorrebbe poter essere immortale. Vorrebbe poter trovare la certezza della vita eterna. Per farsene che, poi? In time la società è riuscita a incamerare il tempo, ma con un uso discriminatorio: limitato per i tanti, per avvantaggiare i pochi destinanti all’immortalità. Le persone pagano in minuti, hanno retribuzioni in ore, le tasse sono addebitate in anni. Se da una parte qualcuno ha un tempo limitato, dall’altra, un numero esiguo ha accumulato milioni di anni da vivere. Ma è così bella l’immortalità? Nella pellicola il regista manifesta dei dubbi. Justin Timberlake è Will Salas, un duro abitante del ghetto, dove il tempo è veramente poco. La gente sopravvive alla giornata (“Si può fare tanto in un giorno”), lotta, mendica qualche minuto. La loro esistenza è misera e difficilmente ci sono speranze, anche perché i controlli sulle accessibilità del tempo sono serrati. Ma non tutti i ricchi sono convinti dei vantaggi positivi dell’immortalità. Alcuni manifestano evidenti segni di stanchezza. La differenza è questa. Nel quartiere bene i ricchi vivono con calma, hanno tanto tempo a disposizione e non guardano l’orologio. La dicotomia è la chiave dello stile del film. Negli sporchi sobborghi tutti sono di fretta “ti ho visto correre, mi ricordano le persone che vengono dal ghetto” la malavita imperversa, la paura intimidisce. Le inquadrature sono più veloci della scena filmica, tutti hanno atteggiamenti preoccupati, le scene sono riprese dal basso per individuare il capo chino dei passanti, simbolo di precarietà. Tutte le scene rapide sono accompagnate da suoni forti, quasi fastidiosi. Ma il meglio viene di notte. In periferia ci si nasconde in pessimi locali, e le strade accentuano la solitudine e la manchevolezza. La luce è scura, buia, interrotta in modo fioco da fonti di luce artificiale, producendo un’atmosfera caravaggesca. Al contrario nel quartiere dei ricchi, tutto è lento, pulito, elegante, le case contengono arredamenti principeschi, ma la vita si muove con una disagevole lentezza. Il bianco imperversa, come la pigrizia e l’indolenza. La stanchezza è evidente, la volontà di vivere in caduta libera: “La mente può essere esaurita anche se il corpo non lo è.” Una decadenza morale, una colpa etica, la sconfitta può essere certa. Una guerra contro l’amorale desiderio di conservazione è combattuta con armi convenzionali. Ma il mondo da sconfiggere contiene anticorpi resistenti. Il finale è emblematico. Gli eroi difensori dei senza tempo sono ripresi a figura intera. Per poi soggiacere con un movimento all’indietro aereo per mostrare la dominante banca: un infinito palazzo completamente bianco, regno incontrastato della ricchezza imponente. Le due persone sono minuscole in confronto al candido potere. Tralascio discussioni sul capitalismo darwiniano, anche se sarebbe interessante comprendere scenicamente l’attacco al padre dell’evoluzionismo. Alcune considerazioni generali collegate alla struttura filmica. Il bel viaggio in macchina di Justin Timberlake. Mentre tutti comprano la macchina per mostrarla, lui compra un’autovettura potente per guidarla. Lui è un uomo di velocità, un uomo del ghetto, conosce il valore della rapidità, del vivere intensamente la propria esistenza, perciò si scatena in una corsa folle, lambendo un panorama affascinante: quella è la metafora del suo essere. “Don’t waste my time.” Il miliardario (“pensa ha un secolo”) Henry Hamilton scrive sul vetro dopo l’incontro con Will Salas. Il loro scambio di amicizia succede in un’oscura notte nella città solitaria. Loro sono in un openspace abbandonato, seduti di fronte. Il loro dialogo avviene in controluce, avvicinandosi e scambiandosi una borraccia di qualche sostanza forte. Le due corse fondamentali per Will Salas avvengono una di notte e una di giorno. Sono in due momenti distanti, però rappresentano una ciclicità fondamentale per l’andamento del film. È una pellicola con una miriade di letture, alcune banali come la facile analogia fra tempo e denaro, ma il tempo non ha bisogno di essere equiparato al denaro per svelare la sua importanza: