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Barbara
Anno: 2012
Regista: Christian Petzold;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Germania;
Data inserimento nel database: 29-06-2012


“Lui dice che la ama.” “Perché lei non lo può seguirlo.” La Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro presenta in anteprima nazionale il film vincitore dell’Orso d’argento alla Berlinale di quest’anno: Barbara del regista Christian Petzold. È meritevole l’idea di presentare nella bellissima Piazza del Popolo una storia importante, traboccante di una nostalgia delicata. Siamo negli anni ottanta, nella Germania dell’Est. La caduta del muro è ancora da venire. La situazione della DDR non è piacevole. La polizia effettua controlli sempre più stringenti. Le persone, coinvolte in contatti con l’Ovest, subiscono minacciose vigilanze. Pure la situazione economica è difficile; inoltre, anni di diffidenza, di infiltrati, di spie hanno creato un ambiente di diffidenza continua. Il passaggio di ogni macchina provoca una febbrile agitazione, ogni persona – semplicemente curiosa – è scambiata per un delatore. Barbara è una dottoressa, è stata trasferita d’arbitro da Berlino in un ospedale della provincia. È sicuramente stata in prigione, ha un amante occidentale, trama con furbizia nell’ombra nella attesa di poter fuggire. Barbara ha un carattere scontroso; è l’identificazione della paura. Nonostante i suoi timori è scrupolosa e affezionata del lavoro. La passione con cui lo svolge è l’esempio di amore profondo nei confronti della gente del suo paese. Nell’ospedale di Torgau incontra il Dottor André. Anche lui proveniente da Berlino a seguito di un tragico errore. All’inizio, il rapporto fra i due è un dialogo interrotto. Lui domanda e lei non risponde. Le riprese sono sguardi accesi e vivaci, senza molte parole, con tanti silenzi riflessivi. La camera indugia sul particolare, sul dettaglio di una sofferente esistenza, sulle squallide camere in cui sopravvivono. Il carattere della dottoressa è piena di nevrosi, scatti; il suo personaggio è descritto dall’attrice Nina Hoss con un lavoro fisico e circostanziato. La sua ansia racconta un passato senza presentarcelo. I due dottori si confrontano con una dura realtà: campi di prigionia, difficoltà di vita, sopportazione, distacco. Tutti devono essere aiutati: “Aiutare i bastardi?” “Quando sono malati sì.” Ma il dramma della scelta è impellente e la fuga all’Ovest è una rassegnata risoluzione: bisogna andare. Dietro si lascia il proprio mondo, la propria patria, e nonostante sia brutta e cattiva e soprattutto per quanto farabutta sia stata nei nostri confronti è pur sempre il luogo della nostra infanzia, il substrato del nostro indelebile ricordo. La scelta del film è, infatti, Est o Ovest? Andare in occidente per poter vivere in condizioni umane migliori, con un lavoro economicamente retributivo, senza il sospetto per ogni passante oppure sottostare alle vessazioni della polizia, alle miserie del lavoro, però svolto con persone con cui si può condividere una stessa patria? Tutto il linguaggio della pellicola tende a questa proiezione. Silenzi, calma, riflessione, moderata passione per poter scegliere, decidere. Il tono diventa quasi realista, soprattutto con il vezzo alla fratelli Dardenne, dei lunghi viaggi in bicicletta della donna, con il muoversi delle fronde degli alberi a causa di un vento – invisibile – ma forte e deciso, simbolico riscontro della solitudine della donna. Scegliere fra la crudele patria o l’occidente ricco inteso come paradiso, è il dilemma frastornante di tanti personaggi inquieti. La stessa tensione la ricordo nel film cubano Fragola e cioccolato. I due personaggi sono le due facce disuguali della stessa Cuba. Entrambi amano il proprio paese, entrambi sono il loro paese, entrambi sono i frutti della rivoluzione di Castro vista nel bene e nel male. La stessa che possiamo raccogliere visitando il paese caraibico. Diego e David devono decidere se rimanere o andare, confrontandosi in una disumana alternativa. Barbara e i cubani di Tomás Gutiérrez Alea e Juan Carlos Tabio – qualunque opzione scelta – saranno vittime della nostalgia, del rimpianto del proprio unico mondo. Una volta partiti tornare indietro è impossibile. Il regista è nato nella Germania dell’Est, avrà conosciuto i sogni, le speranze dell’unificazione per poi trovarsi di fronte alla prima dura realtà di due mondi diversi. Il sogno diviene crudele verismo.